di Stefano Fontana
Nel 1984 il cardinale Joseph Ratzinger aveva risposto alle domande di Vittorio Messori e ne era nato il famoso “Rapporto sulla fede” (Edizioni San Paolo). Il contesto storico in cui si muovevano un po’ tutte le domande del giornalista era il post-concilio. Le risposte di Ratzinger erano fortemente indirizzate a fornire la corretta interpretazione del Concilio, secondo le esigenze di una restaurazione intesa non come un tornare indietro ma come la ricerca di un nuovo equilibrio dopo le esagerazioni dell’abbraccio al mondo.
Nel capitolo IV della lunga intervista, c’è un paragrafo riguardante le Conferenze episcopali. Ratzinger faceva notare che il Vaticano I aveva proclamato il dogma dell’infallibilità del Sommo Pontefice. Era stato interrotto però all’improvviso, a seguito della Presa di Roma da parte dei bersaglieri italiani, e non aveva potuto occuparsi in modo conseguente anche dei vescovi. Il Vaticano II ha quindi ripreso in mano il fascicolo vescovi a cui ha dedicato, tra l’altro un Decreto, il Christus Dominus. Il Papa è infallibile «quando come Pastore e Dottore supremo, proclama da tenersi come certa una dottrina sulla fede o sui costumi». Il Vaticano II, continua Ratzinger, ha ricordato che anche al Collegio episcopale compete la medesima infallibilità nel magistero, sempre che i vescovi «conservino il legame di comunione tra di loro e con il Successore di Pietro».
Con ciò tutto è andato a posto? Non nella pratica, sottolineava Ratzinger: «Il deciso rilancio del ruolo del vescovo si è in realtà smorzato o rischia addirittura di essere soffocato dall’inserzione dei presuli in conferenze episcopali sempre più organizzate, con strutture burocratiche spesso pesanti. Eppure, non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così come è voluta da Cristo, hanno soltanto una funzione pratica concreta».
A considerare queste osservazioni a distanza di tanti anni ormai, la loro veridicità risulta piuttosto chiara. Molti vescovi sono timidi perché aspettano che si pronunci la Conferenza episcopale regionale o nazionale, e queste, a loro volta, sono lente perché prima di pronunciarsi e dare indicazioni ai fedeli devono provocare un estenuato consenso: «Avviene che il punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione diano luogo spesso a documenti appiattiti, dove le precisioni decise sono smussate».
Il nuovo codice di diritto canonico, spiegava sempre nel 1984 Joseph Ratzinger, dice che le Conferenze spiescopali «non possono agire validamente in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non abbiano dato il loro consenso», e a meno che non si tratti di «materie in cui lo abbia disposto il diritto universale oppure lo stabilisca un mandato speciale della Sede Apostolica». Il collettivo, affermava Ratzinger, non sostituisce la persona del singolo vescovo, il quale è, dice il Codice, «l’autentico dottore e maestro della fede per i credenti affidati alle sue cure».
Per essere ancora più chiaro, il futuro Benedetto XVI diceva che «Nessuna conferenza episcopale ha, in quanto tale, una missione di insegnamento: i suoi documenti non hanno valore specifico ma il valore del consenso che è loro attribuito dai singoli vescovi».
La Chiesa, egli ricordava, «è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di Chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo».
Parlando della Germania, Ratzinger ricordava parlando con Vittorio Messori che là una conferenza episcopale esisteva già dagli anni Trenta, ma «i testi davvero vigorosi contro il nazismo furono quelli che vennero da singoli presuli coraggiosi. Quelli della conferenza apparivano invece un po’ smorti, troppo deboli rispetto a ciò che la tragedia richiedeva».
No hay comentarios:
Publicar un comentario