Così Obama prepara una nuova Saigon
di Gianandrea Gaiani
Il presidente dell'Afghanistan Ashraf Ghani, sempre più in difficoltà sul fronte interno e nel contrasto ai talebani, ha accolto con entusiasmo la decisione del presidente statunitense Barack Obama di ritardare il ritiro delle truppe americane e alleate dall'Afghanistan fino a dopo il 2017: "Accolgo con favore la decisione di mantenere l'attuale livello delle forze Usa in Afghanistan. Essa mostra il rinnovo della nostra partnership e il rafforzamento delle relazioni" ha scritto Ghani evidenziando la determinazione a rafforzare le relazioni nel settore della lotta al terrorismo.
La NATO si è subito accodata alla decisione di Washington di mantenere gli attuali livelli di truppe in Afghanistan (9.800 militari americani) per tutto il 2016 per poi ridurli a 5.500 nel 2017 che "apre la strada per una sostenuta presenza della Nato e dei suoi alleati" ha detto il segretario generale dell'Alleanza, Jens Stoltenberg. L’operazione 'Resolute Support” che ha compiti di solo addestramento e consulenza alle forze afghane è composta oggi da 13 mila militari, 6.800 dei quali statunitensi (altri 3 mila americani si occupano di operazioni contro i terroristi con forze speciali, droni e cacciabombardieri) mentre i contingenti alleati più numerosi sono quello tedesco, italiano, turco e georgiano compresi tra i 700 e i 900 effettivi.
"La sicurezza nazionale americana è molto a rischio in quella parte del mondo. Ritardando il ritiro dei nostri soldati si mantiene la sicurezza degli americani" ha detto il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter.
Il ripensamento di Obama è soprattutto il frutto della recente battaglia di Kunduz City in cui solo la presenza di forze occidentali, aeree e terrestri, ha permesso alle truppe afghane di riprendere il controllo della città. Una conferma implicita dello scarso fondamento della propaganda americana e Nato che, da quattro anni, cerca di convincere l’opinione pubblica che le forze di Kabul sono in grado di combattere da sole i talebani. Se così fosse, oggi non vi sarebbero due dozzine di distretti afghani saldamente nelle mani dei talebani e altrettanti in procinto di cadere.
Eppure la decisione della Casa Bianca rappresenta ancora una volta una sconfitta per almeno un paio di ragioni. Innanzitutto Obama, a fine mandato, conferma il fallimento dei tre pilastri della sua politica estera e di sicurezza. Doveva ritirarsi dall’Iraq ed è stato costretto a rimandarvi truppe e aerei per l’ambigua guerra allo Stato Islamico. Doveva ritirare le truppe dall’Afghanistan, ma non c’è riuscito e ha dovuto autorizzare il loro dispiegamento oltre il termine del suo secondo mandato. Doveva anche chiudere Guantanamo, ma nel carcere speciale ci sono ancora 116 jihadisti mentre gran parte di quelli liberati sono tornati a combattere con Isis e al-Qaeda.
La seconda ragione è prettamente militare. Per rovesciare le sorti del conflitto, o almeno impedire ai talebani di progredire occorrerebbe rafforzare la presenza militare stabilizzandola intorno alle 30mila unità con fanteria aeromobile, aerei ed elicotteri alleati assegnati ad ogni comando regionale per affiancare le truppe afghane. Invece di mantenere una missione di combattimento con forze di questa entità, Obama congela gli attuali livelli di forze dedite solo a consulenza e addestramento per poi quasi dimezzarle nel 2017 col risultato che, al massimo, si potrà prolungare l’agonia di Kabul, in attesa che diventi un’altra Saigon.
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