L'attacco del capo (gay) di Apple alla libertà religiosa
di Luigi Santambrogio
Dite la verità, comprereste qualcosa di usato, non la solita auto d’occasione ma una più modesta macchinetta del Nespresso o un set di coltelli inox, da uno che guida una società ricercata in diversi Pesi del mondo per aver evaso milioni, anzi miliardi di dollari? E che fareste mentre ascoltate quel tipetto che dice «di fare affari in modo giusto ed equo»? Minimo una pernacchia, poi una telefonatina alla polizia perché lo vada a prelevare. Ebbene, l’indecente piazzista si chiama Tim Cook, di mestiere fa il mega capataz di Apple, la multinazionale dei computer e degli smarphone fondata da Steve Jobs, il visionario e perennemente “affamato” guru, attaccato al soldo come una cozza allo scoglio. Sul Washington Post, questa rediviva Vanna Marchi della Silicon Valley, ha scritto una sterminata articolessa per denunciare che l’America sta discriminando i gay “nel nome di Dio” e con leggi schiaviste, sufficienti per dichiarare una nuova guerra di secessione.
A leggere Cook, l’America sta tornando ai tempi bui del Ku Kux Klan, quando c’erano «i cartelli con lascritta “solo bianchi” agli ingressi dei negozi, sulle fontanelle pubbliche e sulle porte dei bagni». In Italia, il manifesto pro gay del ceo di Apple è stato subito ripreso e rilanciato da Repubblica: foto in prima pagina del tizio in giacca e t-short nera, come conviene al look finto emaciato ed esistenzialista degli yankee miliardari, e titolo che promette battaglia: “Gay, mister Apple sfida l’America: non si discrimina nel nome di Dio”. Svolgimento: come agitare i “nuovi diritti” gender e arcobaleno per insaccocciarsi montagne di dollari ed evadere felicemente il fisco. Insomma, la solita furbata dei due piccioni con un gay, tanto di moda nelle aziende made in Usa. Perché questa è la vera posta che sta dietro la crociata del capo Apple contro l’approvazione in alcuni Stati (Indiana e Arkansas) di leggi che a suo dire consentirebbero «alle persone di discriminare il loro prossimo» e «rischiano di cancellare decenni di progressi verso una maggiore uguaglianza».
Davvero? Non è così: quei progetti di legge garantiscono invece ai cittadini di poter invocare le proprie convinzioni religiose anche negli affari. Facendo obiezione, se è il caso, alle norme vigenti. Il riferimento è al caso di quei pasticcieri dell’Oregon e del Massachusetts che si sono rifiutati di confezionare torte per gli sposi gay. Ecco dunque quel che Cook vuole insinuare: la discriminazione lgbt è un effetto collaterale della libertà religiosa, che quindi va bandita dalla società e dagli affari. Insomma, prima i gay e poi tutto il resto. Strano modo di difendere lo spirito del Primo emendamento
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