«Io, armena nata in Turchia, non potevo neanche parlare del genocidio. L’Occidente non sia complice»
di Leone Grotti
«Armeno vuol dire cristiano, siamo morti per non farci islamizzare. L’ignoranza e la realpolitik dell’Occidente aiutano la Turchia. Che cosa farà Renzi?». Intervista ad Ani, cantante lirica
L’intervista che anticipiamo di seguito fa parte di un lungo servizio dedicato al centenario del genocidio degli armeni, che comparirà nel prossimo numero del settimanale Tempi, in edicola da giovedì 16 aprile.
«Sono nata a Costantinopoli e ricordo come i turchi mi guardavano da piccola, chiamandomi Gavur. Io sapevo che era una brutta parola, anche se allora non capivo bene che cosa volesse dire». Ani è una cantante lirica armena, vive in Italia da tanti anni, ma è nata a Istanbul. Gavur, il termine dispregiativo usato in Turchia per definire gli infedeli, non è l’unica cosa che da piccola non capiva. In casa coglieva qua e là parole dure, dal significato malvagio, come Ciart, macellazione, o Aksor, deportazione. Lei non capiva: «In casa non si parlava apertamente del genocidio, era un tabù assoluto in Turchia», ma negli anni avrebbe capito. Avrebbe capito che nel 1915 i Giovani turchi massacrarono oltre un milione e mezzo di armeni, e tra questi la famiglia del nonno materno; avrebbe capito perché per strada non poteva parlare armeno, perché la chiamavano Gavur, perché i turchi cercavano di ostacolare la loro fede cristiana rendendo sempre più difficile il loro mantenimento, minacciando la loro sopravvivenza in modo subdolo.
Parlando a tempi.it in occasione del centenario del genocidio, che verrà commemorato il 24 aprile, Ani, che preferisce non divulgare il suo cognome per ragioni di sicurezza, spiega ciò che oggi preferirebbe non vedere: «Dopo 100 anni, ancora l’Occidente non dice la verità sul genocidio armeno e tergiversa per realpolitik, per non infastidire la Turchia. L’Occidente sa tutto, ma tace. È una questione di coraggio e dignità».
Ani, quando ha scoperto dell’esistenza del genocidio armeno?
Non c’è stato un momento preciso, l’ho scoperto negli anni, poco a poco, mettendo insieme tutti i tasselli come in un puzzle. Quand’ero piccola, a Costantinopoli, non si poteva assolutamente parlare del genocidio. Non c’era, non esisteva, era un tabù assoluto. In casa sentivo delle parole, Ciart, Aksor, ma non conoscevo i dettagli. Avevo solo una vaga idea, ho capito dopo perché i miei genitori non me ne parlavano.
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