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domingo, 8 de febrero de 2015

Pirandello: «... E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana»


Cosa ha bisogno l'uomo per ritrovare l'unità perduta?

di Giovanni Fighera

L’uomo assopito dal trambusto quotidiano, addormentato dalle incombenze e dal divertissement in cui vive, ha bisogno che accada qualcosa che risvegli il suo io, la sua sete di felicità.

In tutta la sua produzione Pirandello cerca di mettere in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un Ideale che ricomponga la sua “unità perduta”. Proprio negli anni in cui Freud rivoluziona la psicologia, Einstein introduce la relatività, Picasso inserisce la dimensione spazio-temporale nel quadro dando avvio al cubismo analitico, il grande genio di Pirandello descrive la “perdita del centro” (Hans Sedlmayr) da parte dell’uomo, l’avvento del relativismo culturale e l’affermazione dell’homo technologicus. Un autore così, che comprende la cultura contemporanea tanto da anticiparne e coglierne gli sviluppi, non viene certamente compreso dai lettori e dagli intellettuali coevi. Proprio per questo la sua produzione è stata, spesso, ridotta e classificata all’interno di rigide e semplicistiche gabbie.

Nel percorso di questi mesi spero che sia stato sufficientemente dimostrato come l’opera di Pirandellosia attraversata dalla domanda su che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere. In poche parole la questione è come la persona possa trovare il suo destino, come il nomen possa davvero concretare l’omen (che significa “profezia, augurio, destino”). Che cosa può liberarci da quella prima lettera “N” del nomen perché si possa trovare il proprio compimento? Alcuni personaggi intraprendono la strada della ricerca di una libertà eslege, al di fuori di condizionamenti familiari, lavorativi, sociali. Così, sbarazzatosi del suo nome, Mattia Pascal si tramuta in Adriano Meis, convinto di poter essere artefice del suo destino. Si rende ben presto conto che la sua libertà, che all’inizio gli era parsa senza limiti, può essere chiamata solitudine e noia e lo condanna ad «una terribile pena: quella della compagnia» di se stesso. Arriva a questa conclusione: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Mi ero stimato felice con la cappa di piombo della menzogna addosso».

Vitangelo Moscarda, invece, dopo aver rinunciato a tutto, al lavoro, alla famiglia, agli averi, approda auna sorta di annichilimento dell’io, ad una riduzione a puro spirito che si identifica di volta in volta con un aspetto della natura, rinunciando, però, a qualsiasi forma. Serafino Gubbio, divenuto homo technologicus che comunica attraverso le riprese della telecamera, si riduce alla fine all’afasia e all’incomunicabilità totale. Sono solo alcuni esempi di personaggi che falliscono nell’impresa di divenire davvero protagonisti della propria esistenza. Che cosa può allora davvero riaccendere l’uomo, far sì che l’io viva pienamente e non semplicemente esista come i molluschi, le farfalle, i ragni? Ecco che nella vastissima produzione pirandelliana compaiono tracce di risposta.

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