Scalfari, la cultura comunista e il berlusconismo
di Danilo Quinto
Le parole di Scalfari sono la dimostrazione più coerente dell’odio che la sinistra italiana ha manifestato nei confronti del “nemico” Berlusconi, al quale va ascritto il merito storico di aver impedito che la cultura comunista trionfasse nel Paese, dopo la discesa in campo manu militari dei giudici, che agli inizi degli anni ’90 spazzarono via tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne ‒ appunto ‒ il Partito Comunista. È questo che non gli hanno mai perdonato.
Dopo essere stato sconfessato ‒ seppur con ritardo ‒ in merito all’intervista a Papa Francesco, rimossa nei giorni scorsi dal sito ufficiale del Vaticano, Eugenio Scalfari è tornato ad occuparsi della politica italiana. In uno dei suoi più recenti editoriali della domenica ‒ sempre da non perdere ‒ il fondatore de “La Repubblica” si chiede: «Che accadrà di tutti noi senza più il caimano?».
Ha paragonato Berlusconi al diavolo, ha rivendicato il dissenso nei suoi confronti e nei confronti del berlusconismo come «asset» del suo giornale fin dal 1987 ‒ molti non se ne erano accorti fino ad ora ‒ «quando apparve chiaro il connubio di affari tra lui, i dorotei della Dc e soprattutto i socialisti di Craxi», ha ricordato lo scontro con la Mondadori dell’’89 (la guerra di Segrate, l’ha chiamata) e la nascita di Forza Italia come «fenomeno devastante della vita pubblica italiana».
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