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sábado, 15 de noviembre de 2014

«Noi possiamo decidere di non avere dei nemici. Ma se l’altro ci identifica come suo nemico, cosa possiamo fare?»


Noialtri, gli antieredi

di Marie Waller e Silvio Guerra

Il dialogo con Alain Finkielkraut, che anticipa l'incontro di lunedì 17 novembre. L'occasione per riprendere in mano le radici, la cultura e l'appartenenza europea. Attraverso lo sguardo di un uomo inquieto e appassionato (da Traces, edizione francese)


Lunedì 17 novembre, il Centro culturale di Milano accoglierà nella sala di via Sant’Antonio 5, alle 21.00, Alain Finkielkraut. 

Pigi Colognesi e Flora Crescini dialogheranno col filosofo francese su “Ogni cosa è “avvenimento”. Si può pensare e vivere così? Ripartiamo da Péguy”. A sette mesi dalla sua nomina a membro dell’Académie Française, Finkielkraut ha rilasciato un’intervista a Traces, edizione francese di Tracce. La riproponiamo ai nostri lettori.

Alain Finkielkraut, intellettuale e filosofo dell'Ecole Polytechnique di Parigi, grazie alla sua posizione defilata rispetto alle ideologie precostituite, ci permette di avvicinarci a un livello di verità sulle questioni della cultura, dell’appartenenza, dell’Europa, della libertà umana. Pensatore alle prese con la complessità del mondo, offre un chiarimento, con la sua lucidità inquieta e appassionata, sulle sfide della nostra epoca.

Nel suo ultimo libro L'identité malheureuse (Editions Stock), lei ha scritto: «La critica odierna… non vuol sentir parlare di appartenenza. Appartenere, sostiene, equivale a selezionare. L’affiliazione conduce all’esclusione». Come può vivere l’uomo senza appartenere?

Occorre andare alla storia del XX secolo, alla devastazione del nazismo. Questo enorme trauma ha inibito il pensiero. L’Europa ha ormai paura di se stessa. È preoccupata di veder risorgere inesorabilmente i suoi demoni, e fugge l’appartenenza rifugiandosi nell’indeterminazione. Quanti incarnano l’idea di Europa a Bruxelles o altrove si vantano di non riconoscere che dei valori universali e degli individui. Viviamo il trionfo di una ontologia nominalista. Se il nazismo assorbiva gli individui dentro la loro comunità d’origine, l’Europa post-hitleriana, per espiare la propria colpa e purificarsi dei propri antichi e mortiferi errori, non riconosce che l’esistenza di individui isolati. L’antirazzismo ci impedisce di parlare di Islam, ci chiede di riconoscere solo dei soggetti singoli. In queste condizioni è molto difficile anche solo stare di fronte a quello che viviamo.

Tuttavia non vi è in ogni persona una esigenza di appartenere?

L’appartenenza è un elemento costitutivo della nostra umanità. È ciò che ha scoperto il Romanticismo, nella sua grande polemica contro l’Illuminismo. Noi siamo eredi tanto dell’Illuminismo che del Romanticismo; dobbiamo accollarci questa doppia eredità dello sradicamento e dell’appartenenza, e abbiamo molta difficoltà a farlo per via di ciò che il fascismo ha fatto del Romanticismo.

Malgrado questo sradicamento culturale, politico e nazionale, l’appartenenza non potrebbe essa stessa costituire un elemento che permetta di ritrovare una identità?

Sì, ma perché vi sia appartenenza occorre che vi sia trasmissione. Non si riesce a vedere come la nazione possa sopravvivere al disastro educativo in cui siamo caduti. Nazione significa una lingua, una memoria comune, una cultura, delle opere. Oggi negli antieredi prevale piuttosto l’ignoranza. Essi presentano la nazione come una prigione e quelli che la difendono riducono la nazione francese all’inno nazionale. Amo molto la Marsigliese, ma la Francia ha altri nomi come patrimonio oltre a quello di Leconte de Lisle.

In un’intervista a Le Monde, riguardo all’identità nazionale lei afferma: «Questa identità non la costruiamo noi, ci è donata».

Régis Debray lo ha detto meglio di me: «La particolarità nazionale fa parte di quegli accidenti provvidenziali che impediscono agli esseri umani di considerarsi dèi». L’uomo non può crearsi da sé, non può fondarsi da sé. Viene sempre dopo, nasce in un mondo, non inventa da sé la propria lingua. Hannah Arendt non ha un amore particolare per il popolo ebreo, ma prova un sentimento di gratitudine per il fatto di essere ebrea. La modernità ha favorito una sorta di risentimento verso ciò che è donato. E questo risentimento porta un numero considerevole di individui a volersi liberare di qualsivoglia appartenenza.


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