LIBERTA’ DI RELIGIONE
E DOVERI POLITICI VERSO LA RELIGIO VERA
Il Sillabo, il Vaticano II, Joseph Ratzinger
Stefano Fontana
Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
Parrocchia di San Pietro Apostolo, Verona
Martedì 8 aprile 2014
Premessa
Nell’esaminare il tema della libertà religiosa mi interessano soprattutto due questioni.
La prima: lungo tutto l’Ottocento i Sommi Pontefici avevano negato il diritto alla libertà di religione, come per esempio nell’enciclica Quanta cura e nel Sillabo (1864) di Pio IX. Invece, la dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II parla di un diritto alla libertà di religione.
La seconda: appartiene alla dottrina della Chiesa il principio della regalità di Cristo sulle società temporali. Come si può conciliare questo principio con il riconoscimento della libertà di religione? In un contesto di democrazia politica e di pluralismo religioso viene meno il principio della regalità di Cristo?
Come viene intesa oggi la libertà di religione
Oggi la libertà di religione viene intesa nel seguente modo. L’uomo si trova davanti alle varie religioni, compresi l’agnosticismo o l’ateismo, e può scegliere l’una o l’altra. Il potere politico deve garantire questa sua libertà di scelta e questo lo può fare solo rimanendo indifferente a quale scelta venga fatta. L’individuo ha un libero arbitrio che precede la scelta di una religione o di un’altra e questo libero arbitrio è quanto la legge e il potere politico devono garantire. Non si garantisce una scelta ma la libertà di scegliere. La libertà di religione è intesa come la possibilità di scegliere, e poi di professare, liberamente la religione scelta.
Perché questa concezione è sbagliata
Questa concezione è sbagliata. In questo modo, la libertà di scelta è indifferente al contenuto di verità delle varie religioni. Se viene pubblicamente riconosciuta all’individuo la possibilità di scegliere ogni religione, vuol dire che non c’è una religione più vera di altre né una religione che contenga degli errori pericolosi per l’uomo e per la società. Ognuna potrebbe essere sia vera che falsa. Potrebbero essere anche tutte vere, oppure tutte false. Questa indifferenza alla verità delle religioni è propria sia del singolo individuo a cui viene riconosciuta questa libertà, sia del potere politico che gliela riconosce. L’individuo sa che la propria scelta viene fatta per motivi che comunque non riguardano la questione della verità della religione scelta. Dato che la sua libertà precede la scelta, è anche indifferente alla verità della scelta. Non c’è una scelta sbagliata, perché non c’è una scelta vera. C’è solo la scelta, né vera né falsa. Questo, come dicevo, vale anche per il potere politico che riconosce all’individuo la libertà di religione. Esso ritiene che non esista una religione più vera di un’altra. Il potere politico rispetta lo scegliere, non la scelta, verso la quale rimane indifferente. Garantisce l’esercizio di una libertà separata dalla verità circa quello che viene scelto. Garantisce la separazione tra libertà e verità.
Così facendo, sia il singolo individuo che il potere politico accettano di non avere dei criteri razionali di verità per valutare le religioni. Questo significa che o le religioni non sono soggette a criteri di verità o che l’individuo e il potere politico pensano che la ragione sia così debole da non capire se una religione è più vera di un’altra. E’ evidente che, in ambedue i casi, c’è una separazione tra ragione e religione.
Ecco allora perché questa versione della libertà di religione non può essere accettata. Essa implica la separazione tra libertà e verità (delle religioni) e tra ragione e religione. Una simile separazione non può essere accettata né dalla ragione né della religione (cattolica).
Libertà e verità
Concentriamoci ora sulla concezione di libertà che sta alla base della visione della libertà religiosa che abbiamo appena visto. Si deve distinguere tra libero arbitrio e libertà. Il primo è la pura capacità di scegliere, la seconda è l’esercizio della scelta secondo il bene. Fare il male comporta la perdita della propria libertà. Il libero arbitrio è una pura capacità di scelta e, quindi, è moralmente non significativo e assolutamente astratto. La libertà vera si ha nella scelta fatta secondo il bene; la schiavitù vera consiste nella scelta del male. San Paolo o Socrate in carcere erano liberi, un terrorista o uno stupratore fuori dal carcere non sono liberi. L’esistenza di una libertà precedente il bene e il male è l’idea della modernità, ma non è l’idea cristiana. Si tratta di una libertà astratta, vuota e assoluta, che diventa essa stessa giudizio del bene e del male. Se una cosa non è scelta liberamente è male, una cosa scelta liberamente è bene solo per il fatto di essere scelta liberamente. In questo caso Maria Santissima non sarebbe stata libera, dato che la sua libertà era già tutt’uno con la verità. Invece la libertà è resa tale non solo dallo scegliere ma anche dalla scelta: essa ha a che fare fin da subito con la verità. Non può quindi esistere una libertà di scelta indifferente alla verità di quanto viene scelto. Ciò avviene anche nel caso della scelta della religione. Quando si sceglie una religione si compie un atto di libertà connesso fin da subito con il problema della verità. La verità delle religioni che si scelgono assume così un’importanza fondamentale per la vera libertà della scelta. La verità vi farà liberi.
Libertà di religione e legge morale naturale
Una evidente dimostrazione di questo è la possibilità di scegliere religioni che contraddicono principi di legge morale naturale. Una religione che richiedesse di sacrificare esseri umani agli dèi, l’uccisione degli infedeli, le mutilazioni sessuali, oppure che impedisse le trasfusioni di sangue per motivi di salute, o subordinasse la donna all’uomo, che prevedesse il diritto del marito di stuprare la moglie, che imponesse forme di governo teocratiche, che prevedesse la prostituzione sacra oppure il plagio delle menti degli adepti, oppure i matrimoni combinati tra bambine bambini, oppure la poligamia o la poliandria o che ritenesse lecita l’omosessualità, oppure che prevedesse percorsi di spersonalizzazione o che avesse una visione della persona come illusione … non rispetterebbe la legge morale naturale. Queste religioni conterrebbero elementi di falsità e non di verità, di male e non di bene. Chi le scegliesse perderebbe (liberamente) la propria libertà.
Il potere politico non può allora porsi come indifferente rispetto alle varie religioni, ma deve esaminarle alla luce della ragione pubblica e dell’autentico bene comune. Non può allora ammettere un indiscriminato diritto alla libertà di religione. Ci sono religioni – oppure aspetti di alcune religioni - che non hanno diritto ad essere professate in pubblico. Certo che, per fare questo, bisognerebbe che il potere politico non avesse rinunciato, come purtroppo ha fatto, all’idea che la ragione politica possa conoscere il bene comune. L’indiscriminata tolleranza per tutte le religioni è figlia della debolezza della ragione in generale e della ragione politica in particolare. Ma non si creda che ciò non dipenda anche dall’aver smesso di pensare pubblicamente che possa esistere una religione vera. La politica è incapace di concepire un bene comune che faccia da criterio di valutazione delle religioni perché ha perso di vista il suo rapporto con la religione vera.Questo è un punto su cui torneremo: il rapporto con la religione vera permette alla ragione di valutare razionalmente la verità delle religioni.
La visione preconciliare
Si capisce da quanto detto che la visione preconciliare del Sillabo aveva le sue legittime motivazioni. Il bene comune della società umana implicava il rispetto della legge morale naturale. Elementi di legge morale naturale ci sono più o meno in tutte le religioni ma solo la religione cattolica la garantisce completamente. Inoltre la legge morale naturale, che in linea di principio è accessibile anche alla retta ragione, di fatto ha bisogno della religione cattolica sia per essere adeguatamente conosciuta sia per essere adeguatamente rispettata. Per questo fa parte del bene comune non solo la legge morale naturale ma anche la religione cattolica, senza della quale anche i vincoli della legge morale naturale vengono meno. Papa Francesco ha scritto nella Evangelii Gaudium che c’è un diritto a conoscere il Vangelo. Dogmi cattolici hanno fatto la storia e le eresie avrebbero distrutto la società. Ecco perché lo Stato riteneva di dover proteggere la religione cattolica e impedire le altre religioni.
I ragionamenti ora visti sono stati condotti dal punto di vista della ragione politica. Dal punto di vista della religione cristiana si deve aggiungere che la vita sociale e politica non è indifferente alla salvezza eterna delle anime. Certamente lo Stato non è la Chiesa e anche San Tommaso diceva che non si devono impedire per legge se non i peccati più gravi. Ma è evidente che l’organizzazione della vita terrena può impedire gravemente la salvezza delle anime. Tale vita terrena non ha solo un significato strumentale verso quella eterna, ha anche una sua propria dignità dovuta alla creazione, eppure, dentro l’unicità della vocazione alla salvezza, gioca un ruolo fondamentale per la salvezza o la perdizione.
Faccio notare che tutti i concetti ora visti sono rimasti perfettamente tali nel magistero successivo e odierno: che esista una legge morale naturale, che tale legge morale naturale abbia bisogno della religione cristiana, che non esista un ordine naturale completamente autonomo rispetto a Dio, che la religione cristiana abbia la pretesa di essere la religione vera, che del bene comune faccia parte la religione vera, che le persone e le società (per gli Stati vedremo poi) abbiano dei doveri verso l’unica vera religione è considerato dottrina anche oggi. In altre parole la regalità sociale di Cristo è tuttora dottrina della Chiesa. Cosa è cambiato, allora, rispetto a Pio IX?
Il Vaticano II
La dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II ha parlato di diritto alla libertà di religione. Essa fonda le sue nuove affermazioni sulla dignità della persona umana, che va sempre rispettata anche quando sbaglia, sul principio che nessuno deve essere costretto a credere, né quindi impedito nell’esercizio della sua libertà di religione, in quanto la coazione in questo campo sarebbe irrispettosa dell’unico modo con cui si può accedere alla verità della fede: l’attrazione della verità. Ciò non vuol dire, afferma la dichiarazione conciliare, che il diritto alla libertà religiosa sia un diritto assoluto, in quanto da un lato è subordinato al dovere di cercare la verità e dall’altro ha come limiti il rispetto dell’ordine civile.
Il testo della dichiarazione non chiarisce però del tutto la questione. Fondare la libertà di religione sulla dignità della persona umana è impreciso e insufficiente, perché la dignità della persona umana non si fonda da sola, si fonda in Dio. Non si può fondare e difendere la dignità della persona senza il Dio vero. Anche il concetto di ordine civile da rispettare da parte delle religioni è impreciso: sarebbe stato meglio parlare di bene comune. Nel qual caso però ci risiamo: non è possibile un bene comune che escluda il Dio vero dal suo orizzonte.
La Dignitatis humanae non toglie nessun elemento della dottrina di sempre, solo vi aggiunge che la religione non può essere imposta con la forza. Rifiuta quindi la dottrina dello Stato confessionale, ma non rifiuta il principio della regalità di Cristo. Benedetto XVI ha detto che questa dichiarazione non segna una rottura col passato, ma una discontinuità non di principio ma di fatto. Secondo me, la continuità di principio è data dal perdurare della dottrina della regalità di Cristo e la discontinuità di fatto è data dall’abbandono della figura dello Stato confessionale. Ma questo non comporta che non esista tuttora un dovere delle società e dello Stato verso l’unica vera religione di Cristo. La fine della forma dello Stato confessionale non impedisce che i laici, come dice la Lumen gentium, si impegnino per ordinare a Dio le cose temporali o,come chiedeva Giovanni Paolo II, che si aprissero a Cristo le porte degli Stati e dei sistemi economici e politici.
Prima e dopo Costantino
Il recente centenario costantiniano ha dato occasione ad alcune pensatori di sostenere la seguente tesi: prima di Costantino i Padri della Chiesa si erano dichiarati contrari ad una religione di Stato. Con l’editto di Tessalonica di Teodosio (380) invece il cristianesimo sarebbe diventato religione di Stato con la conseguente persecuzione delle altre religioni. Ciò sarebbe durato fino al Vaticano II che, con la Dignitatis humanae, sarebbe tornato alla Chiesa delle origini, contrario alla religione di Stato. Però questa tesi non risponde a nessuna delle questioni da me sollevate prima. E quindi non può essere una soluzione.
Sant’Agostino è ritenuto sostenitore della protezione da parte dello Stato della religione cristiana in alcune opere, da cui in seguito si sarebbe distaccato per scegliere invece, soprattutto nel De Civitate Dei, per la libertà religiosa. Però, Gilson dice di lui: «Quel che resta vero nel modo più rigido ed assoluto è che in nessun caso la città terrena, e meno ancora la città di Dio, possono essere confuse con una forma di Stato qualsiasi ma che lo Stato possa e debba perfino essere eventualmente utilizzato per i fini propri della Chiesa e, mediante essa, per la Città di Dio, è una questione totalmente diversa ed un punto sul quale Agostino non avrebbe nulla da obiettare». In altre parole la fine dello Stato confessionale non comporta che la politica abbia perso i propri doveri verso la religione vera.
Riferimenti
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