Voltaire, l’illuminista impostore al servizio dei potenti
di Giuseppe Reguzzoni
Il “papa” del laicismo «distorse la realtà per legittimare le sue ossessioni. La sua preoccupazione non era la verità, ma distruggere il cristianesimo». Intervista alla storica Marion Sigaut
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Storica di fama, residente in Borgogna, Marion Sigaut ha lavorato soprattutto sul secolo XVIII, con un lungo e paziente lavoro di ricerca, che ha ribaltato i pregiudizi ancora di tono apologetico sul secolo dei Lumi. Negli ultimi anni, all’attività di ricerca storica ha affiancato la scrittura di importanti opere narrative. Nel 2008 ha pubblicato presso Jacqueline Chambon La Marche rouge, les enfants perdus de l’hôpital général, che racconta la sua scoperta dei lati oscuri dell’Hôpital général de Paris, istituzione laica giansenista che coprì un gigantesco traffico di bambini. Del 2011 è la sua raccolta De la centralisation monarchique à la révolution bourgeoise, saggi di alta divulgazione storica dedicati alla Francia prerivoluzionaria. Con la sua ultima opera Voltaire. Une imposture au service des puissants (Voltaire. Un’impostura al servizio dei potenti), pubblicata presso KontreKulture (Parigi 2014), Marion Sigaut ha osato sfidare il mostro sacro del laicismo francese, con una ricerca documentatissima e del tutto “politicamente scorretta”, ma che dimostra non solo la sua grande competenza storica, ma soprattutto il suo coraggio di ricercatrice, ubbidiente solo alle esigenze della ricerca sincera della verità dei fatti.
È proprio su questo libro e sulla figura di Voltaire, il “papa” del laicismo, che l’abbiamo intervistata.
La sua è un’opera di ricerca e investigazione storica che riesce anche a essere “critica”, giacché non si ferma all’analisi dei documenti di archivio, ma riesce a formulare dei giudizi pertinenti con il nostro presente: che idea ha lei del suo lavoro?
Il mio lavoro consiste nel cercare la verità e raccontarla. Da sempre nutro il gusto per la storia, è una tradizione di famiglia. Mio padre leggeva decine di libri di storia al mese, ce n’erano tanti sparsi per casa; egli faceva delle vere e proprie razzie nella biblioteca municipale. Ho fatto come lui e per lungo tempo ho letto quasi esclusivamente dei libri di storia, saggi o romanzi. Occuparmi di storia, a mia volta, è qualcosa che ho maturato tardi, quando ho percepito la necessità di far emergere delle verità nascoste. Come nel caso della mia ricerca che riguardava il traffico di bambini. Ho sentito come un imperativo morale di andare a cercare ciò che accadeva, e la storia mi sembrava il mezzo migliore. Il seguito mi diede ragione.
Perché Voltaire? Perché intorno a questo personaggio si registra ancora un’infatuazione smisurata, sia in Francia sia in Italia, ancor più di quanto sia avvenuto per i suoi contemporanei?
Non volevo lavorare su Voltaire, ma l’ho incrociato nel corso delle mie ricerche poiché è imprescindibile quando ci si interessa al Settecento. Sono rimasta sbalordita nello scoprire il divario che separa ciò che si dice da ciò che fu. Incredibile. La menzogna è talmente enorme che la voglia di ripristinare il vero mi si è imposta. Bisognava dire la verità. L’infatuazione per Voltaire è la misura dell’enormità menzognera che il sistema proferisce sul nostro passato. Il pubblico ama un Voltaire che non è mai esistito. Ciò che realmente ammira è l’intelligenza, la generosità, il coraggio, l’impegno per delle buone cause, tutto ciò che gli si fa credere che Voltaire abbia difeso. La bugia è troppo grossa.
Ma Voltaire fu chiuso nella Bastiglia due volte! Continua, anche per questo, a essere presentato come il simbolo della libertà di pensiero, mentre in realtà, come lei spiega nel suo libro, Voltaire, allora ventiduenne che alla Bastiglia ci rimase pochissimo, con il suo pamphlet Puero regnante si era davvero reso colpevole di vilipendio del capo di Stato, crimine per cui, anche nell’Italia di oggi, è previsto il carcere. Si può rileggere l’agiografia voltairiana un po’ più criticamente? Si può rileggere Voltaire in maniera storicamente oggettiva, senza infrangere i dogmi della libertà di pensiero?
Criticare Voltaire significa rimettere in discussione tutto ciò che ci viene narrato circa il nostro passato. Il sistema presente ci fa credere che i Lumi furono un movimento redentore del popolo, che la Rivoluzione Francese fu un’insurrezione popolare, che Voltaire difendeva la libertà di espressione, che i re erano tiranni e che la religione cattolica fu barbarica. La realtà è tutto il contrario. I Lumi furono un movimento elitario e pieno di disprezzo nei confronti del popolo, la Rivoluzione una serie di colpi di Stato sanguinari e barbari, Voltaire un mostro, i nostri re dei protettori e la religione cattolica il pilastro dei più bei valori della nostra civiltà. Criticare Voltaire significa riscoprire la libertà di pensiero.
Già, le élites… Voltaire non amava né il popolo né gli emarginati, che disprezzava profondamente, così come disprezzava i neri, che arrivò a definire «animali dotati di parola» e gli ebrei. Voltaire, l’autore del Trattato sulla tolleranza, era un uomo tollerante?
Voltaire fu il più intollerante tra i suoi contemporanei. Lottò tutta la vita per far chiudere alla Bastiglia coloro che non gradiva e per proibire gli scritti che gli facevano ombra. Ciò che definì la sua lotta per la tolleranza consistette, esclusivamente, nell’accusare falsamente i cattolici di intolleranza al fine di predicare la tolleranza a loro discapito. Il Trattato sulla tolleranza è un tessuto di menzogne. Una vergogna.
Sembra, in effetti, che i filosofi illuministi francesi non fossero poi così tanto tolleranti e non solo verso «l’infame», cioè la Chiesa cattolica, ma persino tra di loro, come potrebbe testimoniare Rousseau.
Quando Voltaire e Rousseau si conobbero, quest’ultimo era ancora giovane e poco conosciuto, mentre Voltaire aveva già al suo attivo diverse grandi opere. Lo scontro ebbe inizio dopo il 1750, proprio in seguito alla pubblicazione del Discorso. Voltaire guardava dall’alto in basso la maniera in cui il giovane filosofo ginevrino denunciava quella raffinatezza aristocratica che a lui, invece, piaceva tanto. Voltaire frequentava soprattutto nobili e privilegiati e sdegnava la denuncia radicale delle ineguaglianze sociali da parte di Rousseau. Non si trattò solo di uno scontro intellettuale. Voltaire arrivò a denunciare Rousseau. Lo voleva in galera. E non esitò a toccare con brutalità anche la sfera della vita privata del suo rivale, rimproverando a Rousseau di aver abbandonato i cinque figli avuti con Thérèse Levasseur. Fu un confronto diseguale, che vide Rousseau emarginato e calunniato.
Eppure Voltaire non diceva di essere pronto a morire perché anche chi non la pensava come lui potesse esprimere la propria opinione?
Voltaire era pronto a mettere a morte quelli che lo offuscavano. La frase che gli è attribuita: «Non sono d’accordo con ciò che dite ma mi batterò fino alla morte perché abbiate il diritto di dirlo», è una frase inventata, tra l’altro mai da lui pronunciata, una contro-verità gigantesca che non può in nessun caso applicarsi a Voltaire.
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