«Ha detto bene Ratzinger a Ratisbona: la fede non deve privarci della ragione. Noi musulmani bresciani condanniamo l’Isis»
Benedetta Frigerio
Intervista a Morgan Ghidoni, traduttore dell’imam della moschea di Brescia, dopo il documento di16 centri islamici locali contro il Califfato e le violenze sui cristiani. «Ragionevole un intervento armato per fermare i terroristi»
«Il discorso di papa Ratzinger a Ratisbona? Concordo quando dice che la fede non può essere cieca e che l’uomo deve usare la ragione. La violenza? La condanniamo, anche se nel caso della legittima difesa, per stare nei termini del pontefice, è ragionevolmente necessaria». Così dice Morgan Ghidoni, 39 anni, bresciano convertito all’islam oltre vent’anni fa, traduttore dei sermoni dell’imam della moschea di Brescia e maestro presso il Centro culturale islamico della zona, che ha accettato di spiegare a tempi.it i motivi che hanno spinto 16 centri islamici della provincia di Brescia a firmare un documento di condanna dello Stato islamico e delle persecuzioni perpetrate dai tagliagole del califfo Al Baghdadi nei confronti dei cristiani e degli yazidi in Iraq e in Siria.
Perché avete voluto condannare all’unanimità lo Stato islamico?
Siamo colpiti e addolorati da quello che vediamo in televisione e leggiamo sui giornali. Specialmente dalla crudeltà e dalla disumanità di questa gente, perpetrate in nome della nostra fede. Abbiamo voluto marcare una distanza tra l’islam e l’omicidio dei cristiani, deportati e privati di tutti i loro beni. Abbiamo voluto condannare con forza le deportazioni e le atrocità contro gli yazidi in nome di uno Stato islamico, che per noi è inaccettabile. In sostanza abbiamo riconfermato la dichiarazione già fatta dall’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia) e in precedenza dall’Unione mondiale degli Ulema, i sapienti islamici.
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Ratisbona, 8 anni fa lo scontro con l'Islam: e se oggi scoprissimo che Ratzinger aveva ragione?
Piero Schiavazzi
Sebbene le cronache lo abbiano catalogato e archiviato come il classico incidente di percorso, frutto di una svista e di una gaffe da manuale, i manuali di storia potrebbero invece riabilitare Ratisbona e attribuirle un ruolo di snodo epocale e data cruciale, tra i gesti e discorsi celebri che hanno scandito il cammino dell’Occidente. Al punto che un giorno forse, insieme all’11, ricorderemo anche il 12 settembre. In un contesto analogo e non meno drammatico.
Sono trascorsi otto anni dal quel martedì pomeriggio del 2006, quando Joseph Ratzinger, dimenticandosi di essere Papa e tornando professore davanti al suo pubblico, nell’agone casalingo di Regensburg, alzando appena lo sguardo dal testo con vezzo accademico, scatenò la tempesta perfetta, sollevando le piazze islamiche nel raggio di dodicimila chilometri dal Marocco all’Indonesia.
Lo fece immedesimandosi nella figura - e nei tormenti - dell’imperatore e intellettuale Manuele II Paleologo, fiero difensore di Costantinopoli e di una civiltà in declino, in arretramento terminale di fronte alle armate turche. Insomma un grande sconfitto della storia, che oggi con il senno di poi, dopo la resa delle dimissioni e l’esito del pontificato di Benedetto XVI, rivela una somiglianza biografica e di destino con la parabola del Papa emerito. E allunga la sua ombra geopolitica sull’imminente trasferta di Francesco a Istanbul: su invito dell’erede dei sultani, Tayyip Erdoğan, nella nazione che Atatürk rifondò - e reinventò - abolendo il Califfato, il 29 ottobre 1923, come la Santa Sede ha tenuto recentemente a rimarcare.
Ratisbona, in tale scenario, costituisce il supremo tentativo di definire l’Europa per contrapposizione: quale antidoto alla jihad e alle derive fondamentaliste, muovendo dalla concezione di un Dio che pone un limite a se stesso e alla propria onnipotenza, identificandosi con la ragione creatrice, rinunciando all’opzione dell’arbitrio e offrendosi quale modello originario - e originante - di quella che in seguito avremmo chiamato monarchia costituzionale. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio": quella che all’Islam sarebbe apparsa una limitazione inammissibile dell’assolutezza divina, per l’Occidente rappresenta il principio sorgivo e il DNA da cui scaturiscono tutte le sue conquiste: illuminismo e laicità, diritti e democrazia. Che oggi come ai tempi dell’imperatore è chiamato a difendere.
A otto anni da Regensburg e a seicento dall’assedio di Costantinopoli, le argomentazioni del sovrano bizantino trovano singolare corrispondenza, di toni e intenti, nel sofferto editoriale - manifesto, “L’Occidente da difendere”, in cui una settimana fa Ezio Mauro ha focalizzato il tema irrisolto dell’identità dell’Europa, nel frangente del conflitto e della chiamata alle armi, “perché la democrazia ha diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa”, scrive. A dimostrazione del fatto che, nonostante l’avvento di un Papa che promuove la cultura dell’incontro, i codici e la cornice del dibattito restano quelli dello scontro fra culture, perfino nella riflessione di un laico e liberal quale il direttore di Repubblica, in veste di Manuele Paleologo dei giorni nostri e nell’orizzonte ideale fissato da Benedetto a Ratisbona.
Un orizzonte che neppure Francesco potrà eludere, da qui a breve, quando a Strasburgo il 25 novembre ritroverà il dilemma identitario, che Ratzinger portò alle conseguenze estreme nell’aula di Regensburg, giungendo alla conclusione che, se non c’è Europa senza cristianesimo, vale anche la reciproca, per cui non può esserci cristianesimo senza Europa, cioè senza l’illuminismo, senza la congiunzione indissolubile di fede e ragione, di Atene e Gerusalemme. “A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto”, domandò il Papa tedesco. “La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?”
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