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lunes, 1 de febrero de 2016

Il musulmanesimo non esige dal credente un infinito perfezionamento, ma solo un atto di assoluta sottomissione a Dio


Bisanzio fu distrutta in un giorno. La conquista islamica secondo il grande Solov’ëv


Confinata la fede nel tempio e abbandonato l’agone pubblico ai principi pagani, così la Chiesa orientale si condannò a soccombere alla «legge di vita» di Maometto. «Bastarono cinque anni per ridurla ad archeologia»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Proponiamo in queste pagine due brani di Vladimir Sergeevic Solov’ëv, teologo e filosofo, da molti considerato il pensatore più importante della storia russa, tratti rispettivamente da La Russia e la Chiesa universale (1889) e dalle pagine conclusive di Maometto. Vita e dottrina religiosa (1896), preceduti dall’introduzione firmata da Adriano Dell’Asta per il numero 1/2002 de La Nuova Europa, rivista internazionale della Fondazione Russia Cristiana.

I due testi di Solov’ëv che vengono qui presentati appartengono agli ultimi anni della sua produzione (…). Non molto distanti temporalmente, sono, per un certo verso, complementari in quanto il secondo chiarisce in che cosa consista, positivamente, quella «essenza religiosa dello spirito orientale» di cui si parla nel primo.

Nella sua biografia di Maometto, Solov’ëv insiste su questa positività ricordando che per l’Arabia del tempo l’islam rappresentò comunque il superamento di un paganesimo rozzo e crudele, che si macchiava regolarmente di sacrifici umani e che venne allora sostituito da una fede capace di fondare diversi e più solidali rapporti tra gli uomini. Un nuovo Dio più degno cui rivolgere le proprie preghiere e una nuova unità tra gli uomini, dunque. Ma questo, agli occhi di Solov’ëv, non basta, occorre qualcosa di più essenziale, capace di liberare l’umano dai suoi limiti e di garantirgli un autentico progresso, qualcosa che l’uomo stesso non può darsi, come dimostrano i peccati in cui cadono persino quelli che sono considerati gli uomini più grandi sia da un punto di vista morale sia da un punto di vista religioso: è il caso di campioni della cristianità come Costantino e Carlo Magno che, per le loro sole virtù, non risultano certo migliori di Maometto.

Questo cuore essenziale che l’uomo non può darsi da solo è anche ciò che costituisce il nucleo comune dei due testi: la divinoumanità di Cristo, alla cui luce si può cogliere sia la grandezza dell’islam, sia il suo limite, l’essere una religione nella quale la creatura è privata di qualsiasi libertà di fronte a un creatore che non le chiede altro se non un atto di devozione cieca.

È una dialettica, quella di Solov’ëv che proprio perché centrata su un Cristo reale, vero Dio e vero uomo, non prodotto dall’uomo né dominatore dell’uomo, gli consente di pronunciare verità sgradite e dure senza schiacciare l’altro; così il giudizio sull’islam è assolutamente al fuori di ogni prudenza diplomatica, ma nello stesso tempo è assolutamente al di fuori di ogni pretesa di una presunta superiorità gelosa e violenta: ciò in base a cui si condanna e si denuncia l’indigenza dell’islam non è un proprio privilegio esclusivo ma è esattamente quello che giudica anche gli stessi cristiani.

Se Solov’ëv cristiano condanna l’antiumanesimo di Maometto, non lo fa dall’alto del proprio particolarismo culturale, razziale o religioso ma in nome di una pienezza – quella di Cristo – di fronte alla quale tutti, in primo luogo i cristiani, sono chiamati a convertirsi. Nessun senso di superiorità, ma neppure nessun indifferentismo, nessun finto dialogo, in una sorta di disinteresse per la verità che finisce per non far incontrare mai due posizioni autenticamente diverse e anzi le costringe a diventare delle maschere che rinunciano in partenza alle proprie identità: quello che Solov’ëv rende possibile con la sua dialettica divinoumana è invece la possibilità di un dialogo autentico in un comune cammino di conversione, dove il rimprovero fatto all’altro muove innanzitutto dalla denuncia dei propri peccati e dove l’affermazione della verità non è mai per il proprio vanto ma per l’arricchimento reciproco e per la stessa salvaguardia della verità altrui che, abbandonata a se stessa, diventa sterile e si chiude in un meschino autocompiacimento.

Adriano Dell’Asta

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