La marcia di Washington vince la tempesta
di Roberto Dal Bosco
Sul numero dei partecipanti non vi è ancora una cifra precisa ‒ c’è chi parla di 200.000, chi di 300.000 marcianti, chi di quasi mezzo milione. Quali che siano i numeri della March for Life di Washington dello scorso 22 gennaio, il dato è sbalorditivo: la East Coast è stata infatti colpita, proprio alla vigilia della marcia, da una epocale tempesta di neve che ha bloccato i trasporti mettendo in ginocchio varie città.
Le strade per Washington erano quindi coperte da una fitta coltre bianca. A scoraggiare il viaggio verso la Capitale, oltre all’impossibilità di prevedere l’arrivo, anche il timore di eventuali cause giudiziarie, in agguato in America ogniqualvolta vada storto qualcosa: «questo Paese è un paese di avvocati» dice Mr. Ousmani, un cavaliere di Malta di origine siro-irachena, «se scivoli sulla neve, se hai un incidente con l’autobus, qualcuno ti può denunciare ed in un minuto sei out of business».
«A New York sono stati cancellati molti autobus, per esempio quello dei bambini» dice Suor Shirley delle “Sisters of Life”, una comunità religiosa fondata nel 1991 dal cardinale O’Connor per proteggere la vita dei nascituri. Il pullman di Sister Shirley ha avuto però appena un terzo di defezioni. L’inizio della messa delle sei di mattina per i marcianti newyorchesi ha incredibilmente conciso con la fine della nevicata. Il gruppo poi è arrivato sano e salvo, e in orario, alla marcia, pronto ad esibire le sciarpe verdi, perché ogni diocesi americana alla marcia si fa riconoscere con colori diversi.
New York in particolare quest’anno ha fatto parlare di sé: poche ore prima della marcia, il governatore Andrew Cuomo ha definito i prolife degli «estremisti che non sono i benvenuti a New York». Gli ha risposto sul “New York Post” Edward Menchmann, direttore dell’ufficio delle pubbliche relazioni dell’Arcidiocesi: «chiediamoci: chi sono i veri estremisti? Sono quei pubblici officiali ed attivisti a cui non basta che New York sia la capitale dell’aborto americano, un posto con 110 mila aborti l’anno». Edward era ovviamente in uno dei bus giunti a destinazione.
Impressionante, magico il colpo d’occhio sulla spianata di Washington, dove sul manto candido della neve le migliaia e migliaia di attivisti si sono ritrovati per il quarantunesimo anniversario dell’inizio dell’autogenocidio americano avviato dalla sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade, tragedia giuridica che ha sinora causato 56 milioni di morti, un danno incalcolabile non solo per l’anima della nazione, ma anche per la sua economia: sempre più gente riconosce infatti che, mancando alla conta lavoratori e consumatori, la crisi finanziaria profonda del Paese ne è logica conseguenza. «Questa è la marcia più breve a cui ho partecipato» mi dice Mike, un programmatore con moglie e figlia che viene ogni anno da Buffalo portando anche genitori e fratelli. «Di solito ci si ferma davanti alla Corte Suprema fino a sera a sentire storie di donne che piangono per il loro aborto; si creano file chilometriche davanti agli uffici dei senatori, dove i prolifers vanno a fare pressione. Certo il freddo e la neve quest’anno hanno danneggiato tutti gli eventi accessori della marcia, ma non il suo cuore: di fatto, io e la mia famiglia siamo qui».
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Leggi tutto: www.corrispondenzaromana.it/
Le strade per Washington erano quindi coperte da una fitta coltre bianca. A scoraggiare il viaggio verso la Capitale, oltre all’impossibilità di prevedere l’arrivo, anche il timore di eventuali cause giudiziarie, in agguato in America ogniqualvolta vada storto qualcosa: «questo Paese è un paese di avvocati» dice Mr. Ousmani, un cavaliere di Malta di origine siro-irachena, «se scivoli sulla neve, se hai un incidente con l’autobus, qualcuno ti può denunciare ed in un minuto sei out of business».
«A New York sono stati cancellati molti autobus, per esempio quello dei bambini» dice Suor Shirley delle “Sisters of Life”, una comunità religiosa fondata nel 1991 dal cardinale O’Connor per proteggere la vita dei nascituri. Il pullman di Sister Shirley ha avuto però appena un terzo di defezioni. L’inizio della messa delle sei di mattina per i marcianti newyorchesi ha incredibilmente conciso con la fine della nevicata. Il gruppo poi è arrivato sano e salvo, e in orario, alla marcia, pronto ad esibire le sciarpe verdi, perché ogni diocesi americana alla marcia si fa riconoscere con colori diversi.
New York in particolare quest’anno ha fatto parlare di sé: poche ore prima della marcia, il governatore Andrew Cuomo ha definito i prolife degli «estremisti che non sono i benvenuti a New York». Gli ha risposto sul “New York Post” Edward Menchmann, direttore dell’ufficio delle pubbliche relazioni dell’Arcidiocesi: «chiediamoci: chi sono i veri estremisti? Sono quei pubblici officiali ed attivisti a cui non basta che New York sia la capitale dell’aborto americano, un posto con 110 mila aborti l’anno». Edward era ovviamente in uno dei bus giunti a destinazione.
Impressionante, magico il colpo d’occhio sulla spianata di Washington, dove sul manto candido della neve le migliaia e migliaia di attivisti si sono ritrovati per il quarantunesimo anniversario dell’inizio dell’autogenocidio americano avviato dalla sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade, tragedia giuridica che ha sinora causato 56 milioni di morti, un danno incalcolabile non solo per l’anima della nazione, ma anche per la sua economia: sempre più gente riconosce infatti che, mancando alla conta lavoratori e consumatori, la crisi finanziaria profonda del Paese ne è logica conseguenza. «Questa è la marcia più breve a cui ho partecipato» mi dice Mike, un programmatore con moglie e figlia che viene ogni anno da Buffalo portando anche genitori e fratelli. «Di solito ci si ferma davanti alla Corte Suprema fino a sera a sentire storie di donne che piangono per il loro aborto; si creano file chilometriche davanti agli uffici dei senatori, dove i prolifers vanno a fare pressione. Certo il freddo e la neve quest’anno hanno danneggiato tutti gli eventi accessori della marcia, ma non il suo cuore: di fatto, io e la mia famiglia siamo qui».
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