Quante persone entrano in questa clinica per morire e se ne vanno col sorriso che solo Dio può donare
di Aldo Trento - paldo.trento@gmail.com
Vengono per morire ma incontrano Gesù e con Lui la vita. «Adesso posso affermare con certezza che grazie alla mia malattia ho conosciuto il Signore e questo incontro mi ha insegnato a pregare, a perdonare e a ringraziare».
Come fa uno a dire questa cosa? Quanti di noi provati duramente dalla malattia hanno conosciuto in essa la carezza di Gesù? Una carezza un po’ strana, qualcuno la chiama sberla. Chiamate questo modo di procedere di Dio come volete.
In 10 anni ho accompagnato a morire quasi 1.500 ammalati la cui età media gira attorno ai quarant’anni. Tutti sono saliti al Cielo con il sorriso sulle labbra. Un sorriso impossibile se non avessero incontrato Gesù.
Chi se non Lui può alleviare il dolore? Certamente tutto ciò che la scienza ci dà è una cosa grande, ma se non accade questo incontro anche le medicine non servirebbero a nulla.
L’ammalato come il sano ha una imperiosa necessità di fissare il volto di Gesù che si manifesta nell’abbraccio di chi gli sta accanto e in due sacramenti in particolare: la confessione e la comunione. Senza questa esperienza non potrei offrire nessuna cura palliativa a coloro che già vedono le porte del Paradiso aperte. La Chiesa parla della morte come il giorno della nascita.
Sono cresciuto con i miei genitori fino a quando non si sono separati. Avevo undici anni e per alcune circostanze sono andato a stare con mio zio che viveva a Pirayu. In quel momento ho iniziato a lavorare come venditore di giornali per guadagnare qualcosina e poco a poco gli amici, per così dire, mi hanno offerto la possibilità di vendere droga. Nel giro di un anno ho provato tutto, dalla marijuana alla cola de Zapatero. Guadagnavo abbastanza per riuscire a comprare da bere a mio zio che era alcolizzato. La situazione non era facile, la compagnia che avevo era terribile tanto che un giorno decisi di uscire di casa e di andare a vivere per strada. Di notte mi fermavo in un edificio vecchio e abbandonato nel centro di Asunción insieme ad altri ragazzi con i quali era abitudine aggredire e rubare per riuscire a comprare le droghe. A 17 anni per la prima volta sono entrato nel carcere minorile di Panchito López: di solito quando la polizia mi prendeva alla fine mi liberava. Quella volta no: così è iniziato il mio calvario.
In cella sono stato aggredito e percosso: era uno modo per vedere se ero abbastanza forte per stare lì dentro. Ho incontrato poi un conoscente che mi ha mostrato un padiglione dove nascondevano i coltelli e così sono entrato sempre più nella malavita: sono stato in quel luogo per quattro mesi per poi tornare di nuovo in strada con la stessa vita di prima. E nel giro di poco la polizia mi ha beccato per furto d’auto e mi ha portato di nuovo in cella.
Un dolore insopportabile
Sono cresciuto con i miei genitori fino a quando non si sono separati. Avevo undici anni e per alcune circostanze sono andato a stare con mio zio che viveva a Pirayu. In quel momento ho iniziato a lavorare come venditore di giornali per guadagnare qualcosina e poco a poco gli amici, per così dire, mi hanno offerto la possibilità di vendere droga. Nel giro di un anno ho provato tutto, dalla marijuana alla cola de Zapatero. Guadagnavo abbastanza per riuscire a comprare da bere a mio zio che era alcolizzato. La situazione non era facile, la compagnia che avevo era terribile tanto che un giorno decisi di uscire di casa e di andare a vivere per strada. Di notte mi fermavo in un edificio vecchio e abbandonato nel centro di Asunción insieme ad altri ragazzi con i quali era abitudine aggredire e rubare per riuscire a comprare le droghe. A 17 anni per la prima volta sono entrato nel carcere minorile di Panchito López: di solito quando la polizia mi prendeva alla fine mi liberava. Quella volta no: così è iniziato il mio calvario.
In cella sono stato aggredito e percosso: era uno modo per vedere se ero abbastanza forte per stare lì dentro. Ho incontrato poi un conoscente che mi ha mostrato un padiglione dove nascondevano i coltelli e così sono entrato sempre più nella malavita: sono stato in quel luogo per quattro mesi per poi tornare di nuovo in strada con la stessa vita di prima. E nel giro di poco la polizia mi ha beccato per furto d’auto e mi ha portato di nuovo in cella.
Un dolore insopportabile
Quella volta mi sono spaventato molto: avevo solo 19 anni, ma già una moglie e un figlio di un anno. Lei l’avevo conosciuta alla fermata dell’autobus, era una ragazza di Caaguazù e lavorava come impiegata domestica. Io volevo uscire da quel mondo, ero cosciente che dovevo occuparmi della mia famiglia, ma il bisogno di drogarmi era troppo forte e affondavo sempre di più. Sono tornato nuovamente nel carcere di Tacumbu ed è stato terribile: ogni giorno era una lotta riuscire a vivere. Sono uscito dopo 6 mesi, ma a quel punto mia moglie si era già fatta un’altra vita. Una cosa pazzesca, io le volevo davvero bene. Così mi sono ributtato nella droga, non mi interessava nulla, volevo solo dimenticare. E alla fine mi hanno ributtato a Tacumbu. Questa volta per 5 anni. È stato allora che ho conosciuto alcune persone cattoliche. Dentro al carcere ho incontrato Gesù, mi sono reso conto che davvero Lui fa nuove tutte le cose, anche la mia vita. È stato difficile, lo è ancora.
Mi hanno liberato dopo qualche anno per buona condotta e ho iniziato a lavorare nel mercato di Abasto finché un giorno, molto malato, alcuni amici mi hanno portato in ospedale. Avevo l’Aids, lo sapevo, ma non mi curavo. Dopo 4 mesi mi hanno trasferito alla clinica Divina Providencia. Qui passo momenti molto belli in compagnia di persone che mi amano davvero. Voglio dare solo un consiglio alle persone che sono nel mondo della dipendenza: solamente con l’aiuto di Dio possiamo uscire dal fango nel quale viviamo.
Luis
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