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martes, 1 de diciembre de 2015

La strada è lunga e tortuosa, ma solo l’onestà di ammettere un problema può condurre alla sua soluzione.


Ecco perché non c'è differenza tra Isis e Arabia Saudita

di Valentina Colombo


«Se Daesh e Riad appaiono simili quanto al velo di segretezza che avvolge i processi, il paragone però si ferma lì. Non essendo uno Stato, Daesh “non ha alcuna legittimazione a decidere di uccidere la gente”, come ebbe a dire il portavoce del ministero saudita degli Interni. In pochi casi, questa “differenza” ha permesso di salvare qualche condannato, come il blogger Raif Badawi, condannato a mille frustate. In molti altri casi, le pressioni internazionali sono sembrate invece senza effetto. Nonostante questo, ogni paragone tra il sistema giudiziario saudita e la presunta “giustizia” amministrata da banditi del Daesh è fuorviante. All’ombra del Califfato, infatti, abbiamo assistito a esecuzioni sommarie di civili e militari, allo sgozzamento di ostaggi locali e occidentali, allo sfollamento di intere comunità cristiane e all’abuso sessuale contro ragazze e madri di confessioni ritenute “eretiche». Così il giornalista e docente universitario Camille Eid ha commentato, sul sito di Avvenire, la citazione in giudizio di un utente Twitter da parte del ministero della Giustizia saudita poiché, a seguito di un’ennesima condanna a morte per apostasia, ha scritto che si tratta di una sanzione ‘in stile Daesh’.

Mi permetto di dissentire, seppur parzialmente. Se è vero che lo Stato Islamico non è riconosciuto alivello internazionale in quanto Stato, è ancor più grave che a uno Stato riconosciuto a livello internazionale, che nel 2014 è entrato a far parte del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, insieme alla Cina, il cui ambasciatore presso le Nazioni Unite, Faisal bin Hassan Trad, che di recente è stato chiamato a presiedere un comitato di diplomatici incaricato a scegliere i candidati a ruolo di “esperti delle Nazioni Unite” da inviare in quei Paesi dove l’Onu ritiene che i diritti umani vengano violati, sia concesso di pubblicare, nel maggio scorso, un bando sul sito del ministero per l’amministrazione per otto persone che «eseguano le condanne a morte secondo la sharia islamica dopo che siano state ordinate da una sentenza legale», sia concesso di applicare nel XXI secolo la più rigida interpretazione del diritto penale islamico. Non credo nemmeno che si possa fare affidamento a un processo “giusto” in un Paese in cui il concetto stesso di giustizia si basa sull’interpretazione più rigida e conservatrice della sharia.

D’altronde, Abd Allah ibn Salih al-Ubaid, ex presidente della Società nazionale per i diritti umani inArabia Saudita, dichiarò quanto segue: «Ci sono persone che considerano alcune questioni una violazione dei diritti umani, mentre noi le riteniamo una salvaguardia dei diritti umani – ad esempio le esecuzioni, l’amputazione della mano del ladro, oppure le frustate a un’adultera. Ci sono persone che ritengono che tutte le punizioni coraniche violino i diritti umani. […] Noi, in Arabia Saudita, siamo parte del mondo per quanto concerne i principi generali dei diritti umani. Ma nel nostro Paese rispettiamo le regole della sharia, sicché ciò che ad altri sembra una violazione dei diritti umani è invece per noi un dovere nei confronti di chi ha commesso un reato o un peccato». Nell’ottobre scorso l’ambasciata saudita nel Regno Unito ha pubblicato, a seguito dell’ennesima mobilitazione internazionale a difesa del giovane saudita sciita Ali Nimr condannato alla crocifissione, un tweet molto esplicito e che chiarisce le proprie posizioni: #ArabiaSaudita rifiuta ogni forma di interferenza negli affari interni #AliNimr.

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