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domingo, 10 de julio de 2016

“La secolarizzazione della Dottrina sociale della Chiesa e il personalismo di Maritain”

Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan

Newsletter n.718 | 2016-07-07
Dibattito su secolarizzazione e Maritain


A seguito della Nota di Stefano Fontana dal titolo “La secolarizzazione della Dottrina sociale della Chiesa e il personalismo di Maritain”, diffusa nelle settimane scorse dal nostro Osservatorio, si sta sviluppando un interessante dibattito.

Pubblichiamo qui l’intervento del Padre Arturo Ruiz Freites, IVE. Il contributo è piuttosto lungo e quindi lo pubblicheremo in tre parti.

Precedenti interventi:


Le ambiguità e le deviazioni secolariste di Maritain:

la questione del criterio morale e la sua deriva politica

(Terza parte)




III. La “pluralistizzazione” dei popoli cristiani, cedimento alla dittatura secolarista liberale del relativismo

Un altro nome che Maritain dà alla sua proposta, accanto a quello che giudichiamo contraddittorio (dalla dicotomia di sinderesi morali) e illegittimo di “nuova cristianità secolare”, è quello, meglio corrispondente al modello che propone, di “società pluralista”. Il nome si modella sulla proposta di società specificata da un minimale bene comune quale il rispetto della libertà potenziale, in una società materialmente composta da una moltitudine di diversità di persone non cristiane. Occorre qui conformarsi, come avviene nelle società maggioritariamente non cristiane o persino anticristiane, al garantire il rispetto del libero arbitrio come norma minimale di coesistenza, costituendo formalmente l’autorità e l’esercizio della medesima, il diritto civile e penale e la corrispondente forza coattiva, in modo da astenersi di ogni coazione dettata da un ormai “utopico” bene comune superiore (come avverrebbe in regime di Cristianità). Siamo di fronte ad un diverso tipo di società, non di “cristianità”, specificata da un analogobene comune, non più quello cristiano. Analoghi sono, come gli enti, i beni, i beni comuni in questo caso, e analoghe secondo essi le società. Ma la Cristianità è una essenza specifica, formalmente specificata da un bene comune moralmente cristiano, non da una pseudo-etica cristiana implicita dove i princìpi assunti secolarmente a formalizzare la moralità del bene comune sono quelli del mero libero arbitrio potenziale.



Dalla Cristianità all’umanesimo secolarizzato

Sorprendono poi il pensiero cattolico classico le confusioni in seguito a quella proposta di “società pluralista” quale nuova cristianità secolare analoga, alla quale dovrebbero adeguarsi le società un tempo cristiane, società di popoli ancora culturalmente e maggioritariamente cristiani, di fatto sotto il regime sorto dalle rivoluzioni storiche e imposto alle popolazioni cristiane da circoli illuministi e giacobini, dalle logge, dalle avanguardie, dai poteri del mercantilismo e della finanza, dai manipolatori dei media, ecc. Sorprende negli effetti, ma si capisce se si guarda dalla prospettiva dell’ambiguità formale delle due diverse sinderesi maritainiane. Infatti, lui dice che la sua “nuova cristianità” mantiene “nei princìpi” quella classica, ma poi di fatto la fonda in princìpi diversi, un bene comune che moralizza il solo rispetto della mera ontologia psicologica spirituale, ma non s’interessa della perfezione morale-religiosa del fine ultimo di quella, si estranea da esso, che resta rilegato all’opzione della sola sfera intimo-privata. Si confonde apertura potenziale con “trascendenza” dinamica in atto e finalizzata in Dio, riducendo questa a quella, in qualche modo analogamente come fa K. Rahner nella sua teologia fondamentale, con il suo falsamente teologico “metodo antropologico trascendentale” dove la coscienza invece di innalzarsi a Dio con l’ausilio divino torna a sé nella riflessione scoprendo “a posteriori” l’ “apriori” di indeterminazione potenziale assunto a infinito assoluto attuale, ciò che Cornelio Fabro descrisse come l’ “ateismo moderno” in virtù del “principio d’immanenza”. M. dichiara quindi la “nuova cristianità” come “analoga” in quanto “secolare” e non confessionale. Una cristianità senza fede né l’intero organismo delle virtù della grazia, ma “cristiana” perché rispettosa del libero arbitrio, perché il lemma dei nuovi valori “libertà, uguaglianza, fratellanza” sarebbe cristiano-implicito, immanentizzato nella “coscienza profana” storica. In realtà e in verità, tali realtà sono in indeterminazione potenziale, tali da poter diventare anticristiane negli ideologi ateisti, nei fallimenti immorali della libertà e nella “coscienza profana” delle masse diseducate dai media e dalle leggi libertine. Tutti sanno che tali pseudo-valori della natura in fallimento della vera libertà, uguaglianza e fratellanza, furono il lemma di una rivoluzione anticristiana. Perciò F. Sarda y Salvany titolò il suo celebre saggio “Il liberalismo è peccato” (1886).

M. dichiara ormai utopica e impraticabile la Cristianità classica, confondendola con la realizzazione storica del tempo passato che non torna indietro; questo è tuttavia chiaramente sofistico. Lui, alla luce della sua nuova sinderesi identifica di fatto i princìpi di quella Cristianità classica con le particolarità singolari di quelle realizzazioni storiche passate, scioglie e fonde nello sfumarsi temporale quei princìpi con quelle singolarità di fatto passate, soltanto per avanzare la sua nuova proposta di “società pluralista” specificata da un bene comune minimalista secolarizzato, in sé tanto moralmente indifferente quanto lo è il libero arbitrio potenziale, società camuffata come “analoga cristianità” sui medesimi “princìpi” di “cristianità” che non sono tali: il suo non è più un bene comune “cristiano”. In realtà è una analoga società, non più una cristianità che è una specificità non analoga.

Di conseguenza accade l’ambiguità dicotomica delle sue sinderesi poste a giudicare la storia, le società storiche e il loro “umanesimo”, in vista di proporre il suo “umanesimo integrale” e l’azione politica dei cristiani, in coerenza con la sua “etica adeguata” e la sua “nuova cristianità” secolare e pluralista, che pure arriva, come in Cristianesimo e democrazia, a proporre come religione universale democraticista.

Con la sinderesi classica della teologia morale giudica ancora alle volte come aveva fatto prima nei suoi migliori tempi di tomismo (comunque affetto dal formalismo di Giovanni di S. Tommaso e da certa scolastica del neotomismo). Vi è così da una parte un giudizio positivo sull’umanesimo medievale, pure se con discutibili detrazioni, che poi invece si converte in severe critiche e persino in una dichiarazione di impraticabilità utopica come se questo ormai implicasse un’immorale negazione dei nuovi princìpi della nuova sinderesi, in virtù della quale i nuovi anatematizzati della nuova religione sociale democratista sono gli “integralisti” ossia i propugnatori della Cristianità classica.

Riguardo al periodo caratterizzato, a partire dalla decadenza medievale, dal rinascimento e protestantesimo in poi, passando per le rivoluzioni anticristiane portate avanti dai circoli ideologici atei, ossia la rivoluzione illuministica e borghese francese, la rivoluzione bolscevica, troviamo in M. ancora il giudizio comune della sinderesi della teologia morale cattolica; poi emerge con strisciante ambiguità, quasi legge di ambivalenza della storia, il giudizio della sinderesi libertaria “umanista” che diventa viepiù prevalente e propositivo: quelle rivoluzioni hanno portato secondo il senso progressista della storia l’emergenza dell’umanesimo nella coscienza comune profana e secolare delle masse. Umanesimo viziato di ateismo, tuttavia emergente in quanto umanesimo nei valori libertari, nell’affermazione dell’indeterminazione d’indifferenza potenziale che si evidenzia nelle rivendicazioni atee d’autonomia. Il fallimento stesso della vera libertà negli ateismi riafferma le possibilità dell’indeterminazione radicale del libero arbitrio. La Provvidenza divina che permette il male in vista di un bene maggiore nella prospettiva del Regno dei Cieli e della Gerusalemme celeste, viene in un certo modo immanentizzata dalla nuova sinderesi in un nuovo fine secolare intra - storico verso il quale si avviano i tempi dal fatto della realtà dell’Incarnazione e dell’azione salvifica del Cristo come se questa, senza l’attuazione vera della libertà, rendesse come de facto cristiana la mera potenza libero-arbitrale e ne facesse una finalità “morale” sociale in sé, senza alcuna formale accettazione in attuazione della libertà. Come se anche involontariamente la massa umana, in ciò che la nuova sinderesi pretende di scorgere come “germe cristiano inoculato in essa”, la libertà potenziale, marciasse, quasi provvidente se stessa di un fine secolare malgrado gli ateismi rivoluzionari, verso la piena vigenza del valore libertario-potenziale.

La proposta dell’ “umanesimo integrale” è dunque quella di un umanesimo che “integra” implicitamente e a-confessionalmente i valori “cristiani-impliciti” dell’ “etica adeguata” e della “nuova cristianità” secolare – che sono poi in realtà umanisti tout-court, connotati dalle risultanti del contesto post-cristiano –;umanesimo del rispetto dell’indifferenza radicale del libero arbitrio in pluralismo soggettivo di attuazioni della libertà, configuratosi quale ideale storico concreto e proposta realizzabile che relega definitivamente a utopia proscritta la Cristianità genuina.

L’imposizione della deriva “pluralista” liberale alle società cristiane

Ciò che desta meraviglia e, ancor più, nobile e giusta indignazione davanti alla catastrofica desolazione degli effetti – quell’indignazione che ci insegnò Cristo davanti alla profanazione del Tempio –, non è che ai non cristiani di una società di popoli non cristiani e realmente pluralista si proponga un bene comune minimalista naturale e analogo che rispetti il libero arbitrio come diritto naturale, ma è che si abbia fatto e si voglia imporre questa proposta alle società di popoli cristiani, popoli di radici, maggioranza e cultura cristiana, permeati da un bene comune cristiano: proposta che si traduce in vera e propria apostasia della fede nella dimensione sociale, forzando tali società a diventare apostate e progressivamente pluraliste per l’apostasia dei loro membri. Ecco l’immoralità e il peccato d’infedeltà apostata, per cui si è affermato che “il liberalismo è peccato”. Con la forza dell’ideologia che è quella del “letto di Procusto”: se Procusto non entra nel letto, accorciamo Procusto, non ridimensioniamo il letto. Tagliamo fuori la dimensione formalmente ed esplicitamente cristiana del bene comune secolarizzando la cristianità ed accorciandola al bene comune minimalista. Così hanno secolarizzato e continuano a secolarizzare sempre più e a sciogliere in libero arbitrio potenziale d’indifferenza tutto il bene rimasto ancora nelle rovine delle società in altri tempi “occidentali e cristiane”, adesso apostate. Apostate dalla fede e dalla morale cristiana, e di conseguenza pure incuranti del diritto naturale, poiché la natura o è elevata dalla grazia o è caduta nel peccato, la natura pura non esiste né è mai esistita, è obbedienzialmente ordinata alla salvezza della grazia o fallisce nel peccato. M. pretende dichiarare in grazia, “cristiana” di fatto la natura, nella potenzialità d’indifferenza del libero arbitrio, nella sua dimensione sociale e storica, senza l’attuazione della libertà cooperando con la mozione attuale della grazia per diventare grazia abituale e santificante dell’essere e dinamismo umano, nel singolo e nella società. Ma è una truffa alla vera cristianità, come è una truffa il “cristianesimo anonimo” di Rahner; sono secolarizzazioni del cristianesimo.

Ciò che inspiegabilmente non chiariva il M., è come sarebbe stato gestito e da chi sarebbe stato gestito quel bene comune minimalista e male minore del puro rispetto dell’indifferenza d’indeterminazione potenziale del libero arbitrio. Gravissimo. Lui proponeva le “élites”, ma quali? Quelle dei partiti democristiani? È ovvio che vi siano naturalmente quelli che per particolari circostanze, vocazione, destino o esercizio di autorità sono chiamati a provvedere al bene comune e a pensare, organizzare, ordinare le società. Ma chi ci dice che una società dove la moralità viene invertita, senza tendere a procurare il bonum simpliciter e la liberta in atto – cioè la moralità come ordinamento buono al vero bene, alla perfezione umana secondo il vero fine ultimo –, ma il minimo bonum secundum quidontologico della potenza libera, non verrebbe poi gestita dagli ideologi dell’indeterminazione potenziale, cioè dagli gnostici dell’assoluto indeterminato che relativizza e scioglie ogni bene reale e concreto vero e umano? Chi ci dice che non sarebbe retta dai poteri forti materialisti delle finanze e dai circoli massonici? Chi ci dice che i “germi” di cultura cristiana, frutto di un consenso ottenuto da secoli di educazione nel senso della teologia morale cristiana, non sarebbero propriamente sciolti dalla massificazione gnostica relativistica operata dalla diseducazione dei potenti media moderni? Chi ci dice che agli ideologi degli “umanesimi atei” che hanno usato la riaffermazione dell’indeterminazione del libero arbitrio per farne fallire la libertà in atto, schiavizzando l’uomo ai falsi beni dei miraggi ideologici, non sarebbero succedute nuove élite d’ideologia e potere, quelle della “dittatura del relativismo” contemporanee? Nel liberalismo, al quale cedono i liberal-“cristiani”, la volpe libera nel pollaio libero diventa la dittatura cannibale della volpe. Soltanto la fascinazione ideologica liberale dei liberal – “cristiani” impedisce loro di prendere atto della tragica realtà.

La secolarizzazione immanentista e relativista della dottrina e azione politica dei cattolici

Il peggio è che M. propose la sua teorizzazione politica della nuova “recta ratio agibilium” all’azione politica pratica dei cattolici, facendo loro rinnegare la Cristianità e ciò che di essa rimaneva: è utopismo “integralista” da anatematizzare e non più ideale storico concreto realizzabile. M. imbarca il dinamismo morale politico concreto dei cattolici trasponendolo nella costruzione sociale secondo la sua “nuova” sinderesi etica diventata propriamente non cristiana, ma pseudo-cristiana, in realtà immorale perché non più ordinata cristianamente alla Salvezza. Non giudichiamo le intenzioni, ma oggettivamente dottrina morale e i frutti concreti della pratica: una generazione di pseudo-cattolici pubblicamente immorali in politica, come abbiamo clamorosamente sentito tante volte e in tante espressioni del genere: sono cattolico ma non in politica, ho giurato sulla Costituzione, non sulla Bibbia. Ebbene, il grave problema è che saremo tutti giudicati dall’autore dell’uomo e della Bibbia.

E ancora, il peggio del peggio: chierici e prelati della gerarchia ecclesiastica imbarcati nella nuova sinderesi libertaria immorale in materia pubblica e politica che, tradendo la loro missione divinamente affidata, non solo tacciono miserabilmente quali mercenari assoldati dal beneplacito del mondo, ma benedicono pure l’imposizione del secolarismo gnostico e relativista nella società politica un tempo cristiana, cercando persino di imporlo all’interno della società ecclesiale e con grave scandalo benedicono inoltre il tentativo politico-istituzionale di estenderlo perfino alla base della società, ossia al matrimonio e alla famiglia, alla stessa vita umana, alla sessualità e alla procreazione.

Non per niente lo schema formale-epistemologico di M. è molto somigliante, come abbiamo già segnalato, a quello del corifeo dei teologi progressisti secolaristi: Karl Rahner, con la sua “teologia fondamentale” della “inversione antropologica” che identifica l’apertura potenziale dello spirito nella sua indeterminazione con l’infinito in atto, Dio nella soggettività trascendentale, dapprima implicito, poi reso esplicito dal metodo della “riflessione” teologica della coscienza di sé che “ritorna” a sé per una divinizzazione “salvifica” nirvanizzante nell’indeterminazione, che relativizza in progressismo storico dialettico dissolvente tutta la realtà oggettiva creata e salvifica. Così il cristianesimo è secolarizzato, soggettivizzato, relativizzato; è anche “cristianesimo anonimo”, “esistenziale soprannaturale”, “ateismo salvifico”. È sufficiente che si accetti ciò che è il “nuovo” essere “cristiano”: coscienza soggettiva d’infinito d’indeterminazione, analogo alla maritainiana coscienza comune secolare d’indifferenza radicale della libertà potenziale. A questo punto, anche alla società ecclesiale non resta che cedere a questa gnosi fondamentale e smetterla di proporre “beni” come verità permanenti: occorre relativizzare in favore della coscienza soggettiva indeterminata, nuova “salvezza” gnostica. Si legga la proposta dei nuovi “simboli” di fede relativista e gnostica nell’ultimo capitolo del “Corso fondamentale sulla fede” del noto tedesco. Ciò che M. ha proposto ai cristiani politici per la “nuova cristianità” e il suo “umanesimo integrale” nella società civile, lo ha proposto Rahner per il “cristianesimo anonimo” della sua “svolta antropologica trascendentale” che rovescia la religione rivelata e tutte le realtà, di creazione e Salvezza, da come Dio le ha stabilite in relativismo dissolvente per un soggettivismo nirvanico-gnostico. Ognuno a modo suo, la proposta è l’apostasia dei cristiani. Il M. ha sterilizzato la missione nell’evangelizzazione della società pubblica politica, secolarizzando liberalmente l’impegno politico dei cattolici; Rahner ha sterilizzato la missione evangelizzatrice in ogni dimensione, cominciando col postulare una “fede” non più “dall’alto”, non dal vero Dio distinto e trascendente – intimamente presente che crea, muove, governa e salva –, ma una “fede” nella divinizzazione della coscienza “trascendentale”, teologia dal basso dalla soggettività di coscienza, infinito assoluto indeterminato e nirvanico.

Non è un caso che dichiarazioni pubbliche di maritainismo politico si diano quando si è approvata la dissoluzione del matrimonio e la famiglia quali Dio li ha fatti e santificati. Non lo è nemmeno che un coro di ecclesiastici e teologi si elevi ad approvare e benedire, anzi, avanzare subdolamente – o meno – una proposta simile nella Chiesa, maritainizzando secolaristicamente pure la società ecclesiale, con fine e moralità pseudo-teologica immanentizzata, in tutte le sue dimensioni: fede, morale, sacramenti, liturgia, pastorale.

Ecco dunque l’urgente attualità di questo dibattito-riflessione, affinché si capisca da dove venga tutto questo. Il discernimento del male è anche il principio di recupero della sinderesi autentica: “occorre fare il bene ed evitare il male”. Per non perdere le speranze e ricostruire dalle rovine, perché lo vuole Dio, che non ci salva senza di noi, ed è il bene degli uomini e le loro società: “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.” (Ef 1,10).

Conclusione. Babele o Cristianità

Disse una volta Nostro Signore: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.” (Lc 14,28-30). La più grande spesa per costruire, mezzo necessario, più che il materiale, è il lavoro degli operai umanamente e tecnicamente capaci. Viene allora alla memoria una torre probabilmente rievocata implicitamente nelle parole di Nostro Signore: una torre che significativamente si abbinava ad una città, quella di Babele: avendo “una sola lingua e le stesse parole” (Gen 11,1), gli abitanti si dissero (3-4): “«Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra».” Ma, confuse le loro lingue, non si capirono più e non furono in grado di continuare a costruire, anzi, si dispersero (8-9): “Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.”

Orbene, c’è un solo rimedio a questo, che permetta un nuovo raduno, una nuova intesa di linguaggio e di parole per una nuova possibile cooperazione per la città e la torre, per entrambe le costruzioni, quella orizzontale e quella verticale, che associ gli uomini e li colleghi con il cielo: il dono della Parola di Dio e del suo Spirito, il dono del Salvatore risorto e della Pentecoste. Senza la grazia di Cristo e dello Spirito si continua nella situazione originaria colpevole e punitiva di Babele. Non è sulla pura base comune del fatto che gli uomini siano uomini, che abbiano per natura linguaggio e parola e l’intenzione intenzione di costruire città e torre che si potrà riuscire, perché senza il Verbo e lo Spirito, senza il Salvatore e la Pentecoste, non ci sarà “una lingua e le stesse parole” per riuscire a intendersi nella costruzione veramente efficace di città e torre. Ci sarà solo Babele, confusione e dispersione, malgrado le intenzioni e i tentativi. Voler riuscire solo sulla base della natura e il fatto di linguaggio e parola senza tener conto della qualità di unità di linguaggio e parola, è utopia. C’è un deficit di principio e dunque un fallimento risultante. Ci saranno pure, nella diaspora umana, altre città, ma città dispersive, dove si può – fino ad un certo punto – coesistere in “pluralismo”, come in esodo o in esilio, ma non “quella” che veramente raduna in città autentica perchè aduna attorno alla torre che arriva nel cielo di destinazione e che ha un nome nuovo non umanamente prometeico ma dato da Dio. Ci saranno altre città, società a-cristiane, non cristiane, anti cristiane, pre-cristiane e post cristiane, pagane o apostate, di popoli estranei, di popoli plurali o di popoli cristiani costretti, ma non quella che vuole Dio e che è moralmente e apostolicamente un irrinunciabile ideale temporale realizzabile per un cristiano. Così si esprimeva S. Pio X[1]:

“Tuttavia è proprio questo che vogliono fare della società umana; il loro sogno consiste nel cambiare le sue basi naturali e tradizionali, e nel promettere una città futura edificata su altri princìpi, che osano dichiarare più fecondi, più benefici dei princìpi sui quali si basa la città cristiana attuale.

No, Venerabili Fratelli - bisogna ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si atteggia a dottore e legislatore -, non si costruirà la città diversamente da come Dio l’ha costruita; non si edificherà la società, se la Chiesa non ne getta le basi e non ne dirige i lavori; no, la civiltà non è più da inventare, né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, essa esiste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si tratta unicamente d’instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli attacchi sempre rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: ‘omnia instaurare in Christo’ (Ef. 1,10)”.

(3 – fine)

[1] Lett. Enciclica Notre charge apostolique, nn. 10-11
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