L’Iran esce dall’isolamento. I suoi prigionieri politici ancora no
di Cecilia Tosi
L’accordo sul nucleare riabilita Teheran sullo scenario internazionale. Adesso l’Occidente potrebbe chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e politici. L’Arabia Saudita dovrebbe preoccuparsi.
Il 29 gennaio 2015 la famiglia di Mr Rashedi, della città iraniana di Ramshir, ha ricevuto una telefonata.
Un funzionario statale ha comunicato alla donna all’apparecchio che suo marito era stato giustiziato qualche giorno prima. e che la corte islamica rivoluzionaria l’aveva condannato per guerra a Dio e corruzione sulla terra.
Il codice iraniano sulle esecuzioni prevede che l’avvocato del condannato sia informato 48 ore primadell’uccisione, e che il condannato possa ricevere un visitatore prima di essere giustiziato, ma la maggior parte delle volte questo non succede. Succede invece che la famiglia di un semplice insegnante di provincia, come era Mr Rashedi, sappia che il proprio parente è già stato ucciso e che ha solo 24 ore per organizzare il funerale in casa – vietata la moschea. D’altronde il condannato era molto pericoloso, perché apparteneva alla minoranza ahwazi e aveva fondato un centro di cultura araba che diffondeva una lingua e una tradizione diverse da quelle persiane.
Con lo storico accordo sul nucleare firmato da Iran e Stati Uniti i giovani di Teheran hanno riempito le piazze per festeggiare, ma non tutti hanno dimenticato Mr Rashedi. Qualcuno, mentre inneggiava all’apertura con l’Occidente, ricordava anche chi di questa apertura non godrà, perché destinato all’impiccagione, rinchiuso in carcere o relegato ai domiciliari senza regolare processo.
I giovani iraniani hanno scandito i nomi Hosein e Mehdi, i più rappresentativi tra i prigionieri politici. Hosein Mousavi e Mehdi Karroubi erano gli sfidanti di Mohammed Ahmadi-Nejad alle elezioni iraniane del 2009 e a quei tempi hanno denunciato brogli, contestando il risultato ufficiale. Poi, nel 2011, hanno manifestato in favore delle primavere arabe. Da allora, vivono agli arresti domiciliari, strettamente sorvegliati dalle guardie di sicurezza e impossibilitati a esprimere la loro opinione politica. Mettere in discussione i risultati elettorali è un reato che non ha bisogno di una corte per essere riconosciuto: nessuno dei due, infatti, ha subito un processo. Se Mousavi e Kharroubi non sono ancora finiti impiccati è perché sono molto più famosi di un insegnante di provincia.
Il bello è che i più grandi nemici del Consiglio Supremo non sono pericolosi sovversivi, ma fedeli seguaci della rivoluzione khomeinista, religiosi osservanti e parte integrante dell’establishment politico che ha governato il paese negli ultimi trent’anni. Tant’è vero che nel 2009, quando Mousavi rivendicò la vittoria contro Ahmadi-Nejad, la stessa Associazione dei Chierici Combattenti, guidata dall’ex presidente Mojamad Khatami, chiese il riconteggio dei voti. Ma la fedeltà all’Idea non conta se hai contestato le decisioni del Consiglio Supremo. Se la versione ufficiale dice che un candidato ha perso, il candidato deve solo tacere.
Mousavi non lo ha fatto, e neanche la moglie Zahra Rahnavard, rinchiusa con lui nella sua casa prigione. Nota per aver diretto l’università di Alzahra a Teheran e per essere stata consigliere del presidente Khatami, Rahnavard è una sostenitrice della prim’ora della rivoluzione khomeinista. Non si può certo dire che sia una giovane sediziosa – ha settant’anni e rispetta fedelmente le regole di una brava moglie sciita. Ma ha osato criticare lo svolgimento delle elezioni del 2009, e questo basta. Di lei e di suo marito, da quando sono stati “condannati”, si sa pochissimo. Le poche informazioni che filtrano sui media riguardano i loro ricoveri, l’ultimo a ottobre del 2014 per Zahra, che ha dovuto operarsi agli occhi, mentre il marito è dovuto andare in ospedale almeno due volte per un’angioplastica. In nessuno di questi casi i due coniugi hanno potuto incontrare le figlie, che non riescono a conoscere le condizioni di salute dei genitori. Eppure marito e moglie non mollano. Non chiedono scusa, non provano a ritrattare. Chiedono solo un giusto processo.
Sulla pagina Facebook di Mousavi c’è un suo appello di fine 2014: «Da quando siamo stati rinchiusi ai domiciliari abbiamo ripetutamente informato le autorità, attraverso le guardie carcerarie, che siamo pronti a comparire in tribunale di fronte a una corte imparziale. Voglio rispondere alle false accuse contro di me e smascherare la fonte di tanta corruzione che ha permeato la nostra nazione e la nostra rivoluzione».
Come Mousavi, ci sono almeno altri 133 prigionieri di coscienza in Iran, persone che hanno osato protestare contro la corruzione del regime e che stanno marcendo in cella.
L’accordo sul nucleare riabilita Teheran sullo scenario internazionale. Adesso l’Occidente potrebbe chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e politici. L’Arabia Saudita dovrebbe preoccuparsi.
Il 29 gennaio 2015 la famiglia di Mr Rashedi, della città iraniana di Ramshir, ha ricevuto una telefonata.
Un funzionario statale ha comunicato alla donna all’apparecchio che suo marito era stato giustiziato qualche giorno prima. e che la corte islamica rivoluzionaria l’aveva condannato per guerra a Dio e corruzione sulla terra.
Il codice iraniano sulle esecuzioni prevede che l’avvocato del condannato sia informato 48 ore primadell’uccisione, e che il condannato possa ricevere un visitatore prima di essere giustiziato, ma la maggior parte delle volte questo non succede. Succede invece che la famiglia di un semplice insegnante di provincia, come era Mr Rashedi, sappia che il proprio parente è già stato ucciso e che ha solo 24 ore per organizzare il funerale in casa – vietata la moschea. D’altronde il condannato era molto pericoloso, perché apparteneva alla minoranza ahwazi e aveva fondato un centro di cultura araba che diffondeva una lingua e una tradizione diverse da quelle persiane.
Con lo storico accordo sul nucleare firmato da Iran e Stati Uniti i giovani di Teheran hanno riempito le piazze per festeggiare, ma non tutti hanno dimenticato Mr Rashedi. Qualcuno, mentre inneggiava all’apertura con l’Occidente, ricordava anche chi di questa apertura non godrà, perché destinato all’impiccagione, rinchiuso in carcere o relegato ai domiciliari senza regolare processo.
I giovani iraniani hanno scandito i nomi Hosein e Mehdi, i più rappresentativi tra i prigionieri politici. Hosein Mousavi e Mehdi Karroubi erano gli sfidanti di Mohammed Ahmadi-Nejad alle elezioni iraniane del 2009 e a quei tempi hanno denunciato brogli, contestando il risultato ufficiale. Poi, nel 2011, hanno manifestato in favore delle primavere arabe. Da allora, vivono agli arresti domiciliari, strettamente sorvegliati dalle guardie di sicurezza e impossibilitati a esprimere la loro opinione politica. Mettere in discussione i risultati elettorali è un reato che non ha bisogno di una corte per essere riconosciuto: nessuno dei due, infatti, ha subito un processo. Se Mousavi e Kharroubi non sono ancora finiti impiccati è perché sono molto più famosi di un insegnante di provincia.
Il bello è che i più grandi nemici del Consiglio Supremo non sono pericolosi sovversivi, ma fedeli seguaci della rivoluzione khomeinista, religiosi osservanti e parte integrante dell’establishment politico che ha governato il paese negli ultimi trent’anni. Tant’è vero che nel 2009, quando Mousavi rivendicò la vittoria contro Ahmadi-Nejad, la stessa Associazione dei Chierici Combattenti, guidata dall’ex presidente Mojamad Khatami, chiese il riconteggio dei voti. Ma la fedeltà all’Idea non conta se hai contestato le decisioni del Consiglio Supremo. Se la versione ufficiale dice che un candidato ha perso, il candidato deve solo tacere.
Mousavi non lo ha fatto, e neanche la moglie Zahra Rahnavard, rinchiusa con lui nella sua casa prigione. Nota per aver diretto l’università di Alzahra a Teheran e per essere stata consigliere del presidente Khatami, Rahnavard è una sostenitrice della prim’ora della rivoluzione khomeinista. Non si può certo dire che sia una giovane sediziosa – ha settant’anni e rispetta fedelmente le regole di una brava moglie sciita. Ma ha osato criticare lo svolgimento delle elezioni del 2009, e questo basta. Di lei e di suo marito, da quando sono stati “condannati”, si sa pochissimo. Le poche informazioni che filtrano sui media riguardano i loro ricoveri, l’ultimo a ottobre del 2014 per Zahra, che ha dovuto operarsi agli occhi, mentre il marito è dovuto andare in ospedale almeno due volte per un’angioplastica. In nessuno di questi casi i due coniugi hanno potuto incontrare le figlie, che non riescono a conoscere le condizioni di salute dei genitori. Eppure marito e moglie non mollano. Non chiedono scusa, non provano a ritrattare. Chiedono solo un giusto processo.
Sulla pagina Facebook di Mousavi c’è un suo appello di fine 2014: «Da quando siamo stati rinchiusi ai domiciliari abbiamo ripetutamente informato le autorità, attraverso le guardie carcerarie, che siamo pronti a comparire in tribunale di fronte a una corte imparziale. Voglio rispondere alle false accuse contro di me e smascherare la fonte di tanta corruzione che ha permeato la nostra nazione e la nostra rivoluzione».
Come Mousavi, ci sono almeno altri 133 prigionieri di coscienza in Iran, persone che hanno osato protestare contro la corruzione del regime e che stanno marcendo in cella.
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