Lo studente africano festeggia sul cadavere di Cecil e straccia la sghemba antropologia occidentale
di Mattia Ferraresi
L’articolo definitivo sulla vicenda del leone Cecil l’ha scritto sul New York Times un ragazzo dello Zimbabwe di nome Goodwell Nzou, dottorando alla Wake Forest University.
Di fronte alle vesti stracciate dell’occidente, alla voce strozzata dalle lacrime di Jimmy Kimmel, agli insulti affissi porta del cacciatore-dentista del Minnesota, alle richieste della Peta di impiccarlo, al processo di estradizione, Nzou ha provato “la più decisa contraddizione culturale che ho sperimentato nei miei cinque anni da studente negli Stati Uniti”.
Perché nella mentalità di Nzou – che altrove il New York Times potrebbe definire rozza o primitiva ma non lo farà perché date le circostanze non sarebbe politicamente corretto – il leone è una bestia feroce che assalta e divora gli uomini. Non gli uomini in generale, ma i suoi amici, i compagni di villaggio, i parenti.
E anche se non uccide, il leone genera uno stato permanente di terrore, la sua predatoria presenza stabilisce un coprifuoco naturale che gli abitanti si risparmierebbero volentieri.
Quando qualcuno riesce nell’impresa di ammazzare un leone il villaggio fa festa per giorni, altro che hashtag indignati.
A Nzou non potrebbe importare di meno se il cacciatore è bianco o nero, se è motivato dalla sopravvivenza o dalla vanità, se uccide la bestia legalmente o di frodo, se lo fa con le frecce, con il fucile o con il napalm, perché il leone è una fiera cattiva che minaccia l’uomo, e il minimo che l’uomo possa fare è rispondere, con tutti i mezzi.
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