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sábado, 6 de agosto de 2016

Perché il Papa dice semplicemente che quella in corso non è una guerra di religione?


Guerra di religione asimmetrica e correzione fraterna


di Rodolfo Casadei

Quella dei terroristi che si rifanno all’Isis è guerra di religione o guerra non di religione? Mah, io direi guerra di religione asimmetrica. Il termine “guerra asimmetrica” venne introdotto subito dopo gli attentati dell’11 settembre e la dichiarazione di “guerra al terrorismo” da parte del presidente G.W. Bush. Da una parte c’era la potenza statuale degli Stati Uniti, le sue forze armate, la sua sovranità universalmente riconosciuta, e il grande territorio su cui essa era esercitata attraverso le leggi e l’azione del governo. Dall’altra c’era Al Qaeda, organizzazione terroristica transnazionale vagamente strutturata intenta a trasformare in arma qualunque prodotto tecnologico, non riconosciuta da nessuno stato del mondo e soprattutto priva di territorio di riferimento. Se la strutturazione sovrana permetteva agli Stati Uniti di organizzare e utilizzare il massimo di forza militare contro un avversario enormemente inferiore per numero e per mezzi, la questione del territorio invece giocava a favore di Al Qaeda: essa non doveva difendere dei confini e garantire la sicurezza dei suoi abitanti, mentre poteva colpire quelli del suo nemico quando si sentiva pronta. All’inverso, gli Usa dovevano dedicare forze importanti alla difesa della propria realtà territoriale e alla ricerca delle basi segrete di Al Qaeda sparse in giro per il mondo (spesso violando la sovranità di altri paesi). Quindici anni dopo, la guerra non è finita e si è di molto complicata, con l’apparizione di un’entità, lo Stato islamico, che unisce i caratteri di territorialità e di sovranità di uno stato classico come gli Stati Uniti con quelli di flessibilità e assenza di scrupoli di un‘organizzazione terroristica come Al Qaeda, che non ha sottoscritto alcun accordo di diritto internazionale.

Quella fra lo Stato islamico e tutti coloro che esso definisce infedeli o crociati è una guerra di religione sì, ma asimmetrica, non per il diverso modello di organizzazione delle forze in campo, ma perché solo l’aggressore, cioè l’Isis, la considera tale. In una guerra di religione classica, come sono state quelle europee del Cinquecento e del Seciento, le parti in campo combattono per la vittoria della vera religione, che sarebbe poi quella a cui ciascuno di loro aderisce. Oggi c’è un solo soggetto che vuole imporre la sua religione e l’ordine politico che da essa deriva a tutti gli altri, mentre gli altri non intendono imporre la loro religione ma solo praticarla. Che quella dell’Isis, al di là degli interessi politici ed economici di cui questa entità terroristica è veicolo, sia guerra di religione posso testimoniarlo di persona, avendo incontrato alcune delle sue vittime: i cristiani e gli yazidi dell’Iraq. Il contenuto del famoso editto del “califfo” al-Baghdadi, quello del luglio 2014 con cui intimava ai cristiani di Mosul di scegliere fra tre possibilità, e cioè quella di convertirsi all’islam, quella di pagare una tassa di sottomissione (la Jizya) oppure abbandonare la città, perché fuori dalle prime due opzioni “fra noi e voi ci sarà solo la spada”, io l’avevo già ascoltato sei anni prima dalla bocca dell’allora arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Lui mi aveva raccontato, quando ci eravamo incontrati in una cittadina della Piana di Ninive, che davanti alle case dei cristiani della sua città veniva lasciata una videocassetta, e quando la si proiettava si vedeva un uomo mascherato che intimava ai cristiani, accusati di essere complici dei crociati americani invasori del paese, di scegliere fra una delle tre possibilità dette, altrimenti non restava che la spada. A quel tempo l’Isis non esisteva, ma il progetto di cacciare i cristiani da Mosul sì, e poche settimane dopo l’intervista mons. Rahho fu rapito e non tornò vivo dal sequestro. Ancora più agghiacciante la narrazione che mi fece una donna yazida ridotta in schivitù dall’Isis e poi fuggita da Raqqa grazie alla complicità della moglie del jihadista che l’aveva acquistata al mercato. Mi disse che nel suo villaggio gli assedianti dello Stato islamico avevano dato tempo tre giorni all’intera comunità per convertirsi all’islam, altrimenti tutti sarebbero stati uccisi. Gli yazidi discussero per tre giorni se era il caso di accedere alla richiesta dei miliziani, e infine decisero all’unanimità di non rinunciare alla propria fede. Quando i jihadisti tornarono al villaggio, separarono gli uomini (dai 12 anni in su) dalle donne e dai bambini, e portarono via i primi su alcuni camion, che dopo poco più di un’ora tornarono vuoti per raccogliere chi era rimasto al villaggio e portarlo a Raqqa o a Mosul. Furono passati per le armi quasi 400 maschi.

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