Vergini come marito e moglie. Lo splendore del matrimonio e della famiglia in un fenomenale dialogo con don Luigi Giussani
Luigi Giussani - Antonio Sicari
A dieci anni dalla scomparsa del fondatore di Cl, pubblichiamo parte della sua poco conosciuta ma sorprendentemente attuale “conversazione sul matrimonio” con padre Sicari
Domenica 22 febbraio ricorre il decimo anniversario della scomparsa di monsignor Luigi Giussani. Per gentile concessione dell’editrice Jaca Book, riproponiamo di seguito ampi stralci della sua “Conversazione sul matrimonio” con il teologo Antonio Maria Sicari. Il dialogo è contenuto in Breve catechesi sul matrimonio (1990), libro firmato dallo stesso Sicari.
Per poter dare a questo mio libro sul matrimonio una conclusione viva, ho chiesto a monsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, di poter rivedere con lui, conversando, almeno le pagine più decisive. Il motivo della scelta è per me ovvio: tra tutti i sacerdoti che conosco, nessuno sa parlare, come lui, della verginità cristiana. (…) Questo amore immediato a Cristo – il saper vedere l’intera creazione e gli uomini tutti come segni di Lui, e amarLo attraversando ogni altro amore ed ogni altra affezione – è la «verginità». (…)
- Sicari (S.). Vorrei iniziare la nostra “conversazione sul matrimonio” riprendendo la frase di S. Agostino posta in apertura a questo libro: «Quid tam tuus quam tu? Sed quid tam non tuus quam tu, si alicuius est quod es? – Che cosa è così tuo come te stesso? Ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?». (…) Questo ci porta subito al cuore del problema, al tema della appartenenza nella sua forma più totale e radicale…
- Giussani (G.). Sì, questa frase sintetizza, anche per noi uomini, una delle intuizioni più profonde: che il contenuto della propria autocoscienza si svela nella appartenenza a un altro e come appartenenza a un altro. Ciò è evidente soprattutto nel bambino: tutta la coscienza che egli ha di sé è nella appartenenza, sperimentata come un bene, al padre e alla madre. Altrimenti viene impedito lo stesso sviluppo della sua coscienza.
- S. Parliamo ora della “appartenenza coniugale”, quella che comincia a realizzarsi fin dal primo innamoramento…
- G. Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro. Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi “definitivo” della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà. (…)
- S. Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? Qual è il cammino da percorrere?
- G. La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste. Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio. (…) Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.
- S. Una realtà che educhi: una comunità? Un prete? Un’altra coppia di sposi? Una persona consacrata?
- G. La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo. Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente; importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.
- S. Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa (…) deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?
- G. Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato “per te” un momento pieno di senso e di sentimento. In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.
- S. Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice “senso religioso”. Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?
- G. Vedi, (…) se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo “testimone” o ministro.
- S. Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così “spirituale”…!
- G. Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosa; e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel “sacramento” che è l’amore tra uomo e donna.
- S. Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?
- G. È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti. D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco. (…) Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto. Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona. (…)
- G. Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro. Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi “definitivo” della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà. (…)
- S. Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? Qual è il cammino da percorrere?
- G. La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste. Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio. (…) Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.
- S. Una realtà che educhi: una comunità? Un prete? Un’altra coppia di sposi? Una persona consacrata?
- G. La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo. Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente; importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.
- S. Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa (…) deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?
- G. Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato “per te” un momento pieno di senso e di sentimento. In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.
- S. Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice “senso religioso”. Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?
- G. Vedi, (…) se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo “testimone” o ministro.
- S. Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così “spirituale”…!
- G. Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosa; e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel “sacramento” che è l’amore tra uomo e donna.
- S. Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?
- G. È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti. D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco. (…) Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto. Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona. (…)
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