viernes, 26 de diciembre de 2014

Dal Cremlino s’irradia un misto di conservatorismo e panslavismo che seduce anche in Europa


Il putinismo come ideologia


Uno zar incontra un papa. Un incontro semi ufficiale, cortese, ma non privo di dossier delicati: il Pontefice fa un elenco di rimostranze, il sovrano risponde con freddezza di non poter cedere in quanto è custode dell’ortodossia. Salutandosi si scambiano dei doni, e il Papa dice: “Si ricordi che i sovrani esistono per il bene dei popoli e non i popoli per la volontà dei sovrani”. Lo zar scuote la testa, e scrive al ritorno nelle sue stanze: “Le due grandezze passate, quella di Roma e quella del papato, quasi incredibili potenze che furono, sulle cui rovine oggi giocano le ombre cinesi di un potere quasi inesistente, con appena un filo di respiro, portando in se stesso il germe della propria distruzione”. Lo zar aveva problemi con la Lituania e la Polonia e stava per imbarcarsi in una guerra in Crimea, e dal Papa voleva una strigliata contro i cattolici che fomentavano il gregge polacco contro i russi. Sul suo interlocutore al Vaticano dirà: “Un uomo onesto e di buone intenzioni, ma che fin dall’inizio voleva troppo accontentare lo spirito del tempo”.

Lo zar non si chiamava Vladimir, ma Nicola I, venuto in visita privata (ai romani si presenterà come Nikolay Pavlovich Romanov, nobile russo) da Gregorio XVI. Correva l’anno 1845 e l’obiettivo del sovrano russo (entrato nella storia con il soprannome di “Bastone”) era convincere l’Europa ad allearsi contro i fermenti rivoluzionari, “salvare il cristianesimo e soffocare l’idra della rivoluzione nella culla”, spiega Mark Smirnov, vicedirettore della rivista Scienza e religione e autore di un singolare saggio dedicato all’incontro tra Putin e papa Francesco, pubblicato qualche mese fa. La tentazione di tracciare paralleli storici ispirati alla cronaca è ovvia, ma il ragionamento merita attenzione se non altro perché è uno dei pochi segnali che arrivano dal laboratorio intellettuale del putinismo. Un’occhiata oltre la cortina fumogena della propaganda e le esternazioni di politologi di corte, che permette non soltanto di interrogarsi sui meccanismi decisionali e le prossime mosse in uno scacchiere incandescente, ma di aprire uno spiraglio sul sistema di valori e idee che muove un uomo, e il sistema che si è costruito intorno.
Dunque, l’uomo che per 20 anni ha portato in tasca una tessera del Partito comunista, e ha fatto parte del Kgb che lavorava per espandere la rivoluzione proletaria in tutto il mondo, si ispira invece a uno dei sovrani più conservatori della storia russa. 
Del resto, lo stesso Putin lo ammise già all’inizio della sua carriera: interrogato dai direttori dei giornali italiani nella sua prima visita a Roma, quando agli occhi del mondo era ancora un oggetto non identificato, si definì “conservatore”. 

Allora la battuta rimase incompresa, anche perché non era chiaro quanto un russo potesse usare il termine nella stessa accezione dell’Europa, visto che a Mosca fino a pochi anni prima venivano chiamate “sinistra” le forze anti comuniste liberali e “destra” i reazionari del Pcus. 

Dieci anni dopo, Putin cita in continuazione Nikolai Berdiaev (“Il senso del conservatorismo non è nell’ostacolare il movimento in alto e in avanti, ma nell’ostacolare il moto all’indietro e verso il basso, il buio caotico, il ritorno allo stato primordiale”), si propone come difensore dei “valori tradizionali” dimenticati dall’Europa degradata nella sua “tolleranza asessuata e sterile” (e la crociata contro i gay e l’abbondanza di icone e santi nell’estetica del regime ne sono soltanto le espressioni più visibili), ed è terrorizzato dal “caos rivoluzionario” del Maidan. 

E diventa chiaro che non ha mai frainteso le terminologie, intendeva proprio questo: lui non promuove le rivoluzioni, è colui che le ferma.

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