domingo, 23 de noviembre de 2014

Il problema della Cina non è solo economico ma culturale


La Cina che verrà, crisi economica 
e persecuzione dei cristiani

di Massimo Introvigne

Con il califfato islamico che minaccia il mondo, i venti di guerra in Ucraina, la pressione fiscale da record in Europa e la lobby gay che ogni giorno ne inventa una nuova, tocca preoccuparsi pure della Cina? 

Sembra di sì, a giudicare dalle copertine delle principali riviste economiche internazionali di questo mese di novembre. Mentre Forbes e Bloomberg Businessweek annunciano una crisi economica cinese prossima ventura che finirà per colpire duramente tutti noi, l’Economist mette in copertina la rinnovata persecuzione dei cristiani in Cina.

Se davvero ci sarà una crisi economica in Cina, le sue ripercussioni internazionali rischieranno di innescare un terremoto economico mondiale peggiore di quello del 2008. Basta pensare al fatto che la Cina detiene una percentuale del debito pubblico degli Stati Uniti valutata al 7,7% e del debito pubblico italiano su cui non esistono dati ufficiali ma che il Financial Times stima intorno al 4% e l’allora ministro degli Esteri Frattini nel luglio 2011 addirittura al 13%. Se la Cina volesse o dovesse vendere tutti o molti di questi titoli di Stato all’improvviso, le ripercussioni sarebbero devastanti.

Perché gli analisti prevedono una crisi della Cina, e anzi qualcuno scrive che per il mondo sarebbe meglio se scoppiasse subito, anziché essere ritardata da misure del governo cinese? Il punto di partenza è chiedersi come ha fatto la Cina, un tempo Paese povero, a diventare la seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti per PIL. Le ragioni, come sempre, sono diverse, ma una sovrasta le altre: la Cina, il Paese più popoloso del mondo (un miliardo e trecentocinquanta milioni di abitanti), ha o almeno aveva una straordinaria forza lavoro, disponibile a lavorare per salari più bassi rispetto alle altre grandi economie mondiali e anche con minori controlli quanto alla sicurezza e all’ecologia. Con la fine dell’epoca maoista questa forza lavoro è stata sia motivata – perché, pur sottopagata rispetto ad altri Paesi, le è stato concesso di accedere a un modesto benessere – sia messa a disposizione del mondo, con la fine dell’isolazionismo cinese. La Cina ha cominciato a corteggiare le più grandi aziende mondiali perché delocalizzassero la loro produzione nei vari distretti industriali cinesi, attirate dai bassi costi del lavoro, dall’assenza di sindacati indipendenti e dalle norme rilassate – per usare un eufemismo – in materia di sicurezza del lavoro e di inquinamento. Il successo è stato spettacolare, con margini di crescita annuale del sette per cento mantenuti per decenni.

Detto in termini semplici, la forza della Cina era che c’erano tanti cinesi, e che – rispetto ai tempi di Mao – non erano semplicemente costretti a lavorare, ma premiati con un effettivo miglioramento del tenore di vita, così che a poco a poco diventavano anche consumatori e nel Paese si creava un mercato interno che affiancava l’esportazione. Tuttavia un terzo dell’intero PIL cinese nel primo decennio del XXI secolo derivava dalle esportazioni. Le esportazioni sono ora diminuite: non per colpa dei cinesi, ma della crisi economica internazionale che dal 2008 ha contratto il consumo in Occidente. Come numerosi studi hanno dimostrato, tutta la macchina dell’economia cinese e del suo successo è stata costruita sul presupposto di una crescita continua del PIL trainata dalla crescita della sua produzione industriale. La diminuzione di questi indicatori semplicemente non è prevista. La Cina è come un’automobile che o gira a pieno regime o non gira del tutto.

La Cina ha reagito alla diminuzione delle esportazioni stimolando la produzione e il consumo interni tramite la creazione di quella che gli analisti chiamano una bolla del credito. Le crisi economiche iniziano spesso per colpa di crediti concessi dalle banche e che non possono essere ripagati, determinando la crisi delle banche e a catena di tutta l’economia. In Occidente nel 2008 si trattava di crediti concessi a privati non affidabili per l’acquisto di immobili. In Cina si tratta invece di crediti concessi alle imprese con lo scopo di sostenere la produzione.

Gli economisti sono perplessi di fronte a questa bolla creditizia perché l’hanno già vista esplodere una volta, nella crisi del Giappone del 1997 che anticipava di dieci anni la crisi dell’Occidente. Anche in quel caso, diminuendo le esportazioni, il Giappone aveva cercato di mantenere la produzione con il credito allegro. La bolla era scoppiata quando i crediti inesigibili erano arrivati all’8%. In Cina sono già oltre il 10%. Un governo non democratico può rimandare lo scoppio della bolla: ma non all’infinito.

La diminuzione della domanda di prodotti cinesi da parte dell’Occidente, conseguenza della crisi economica occidentale, è solo una delle due ragioni della difficoltà economica in cui versa la Cina. La seconda ragione è demografica. Qualche anno fa sarebbe sembrato assurdo sostenere che il problema della Cina era che c’erano troppo pochi cinesi, e ancora oggi il numero di cinesi continua a crescere, sia pure con percentuali dello zero virgola. Eppure è vero: i cinesi stanno diventando troppo pochi.

Per ragioni non principalmente economiche ma ideologiche – e anche perché gli strateghi del Partito Comunista credevano a tesi fallaci avanzate da organizzazioni internazionali – nel 1979 la Cina ha iniziato il più grande esperimento demografico della storia con la politica del figlio unico. All’inizio la donna che restava incinta per la seconda volta e non abortiva tempestivamente era fatta abortire a forza. In seguito i metodi sono diventati meno brutali, ma le forti multe hanno continuato a scoraggiare chiunque dal violare la legge, tranne pochi ricchi. Il tasso di fertilità delle donne cinesi è sceso all’1,45%, che non è il più basso del mondo perché l’Italia – senza leggi sul figlio unico – è all’1,4%, ma che resta lontanissimo dal tasso di rimpiazzo del 2,1% che permette alla popolazione di rimanere stabile.

Ma, si obietterà, dal 1979 la popolazione cinese è aumentata da circa un miliardo a un miliardo e trecentocinquanta milioni, nonostante la legge sul figlio unico. È vero, ma nel frattempo è cambiata drammaticamente la composizione demografica, da due diversi punti di vista. Primo: la Cina, un tempo un Paese di giovani, ha ora una percentuale di ultra-sessantacinquenni che marcia verso il 30% previsto per il 2030. La forza della Cina era il «dividendo demografico», cioè una popolazione composta in grande maggioranza da adulti in età lavorativa. Questa forza si sta rapidamente esaurendo, e la Cina – un Paese che ha tradizionalmente un grande rispetto per gli anziani, per cui (per fortuna) nessuno propone l’eutanasia e la popolazione reclama un buon trattamento dei vecchi – si trova, esattamente come l’Europa, con tanti pensionati e sempre meno lavoratori per mantenerli.

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