sábado, 1 de marzo de 2014

Per non rassegnarsi a un’Europa avara di vita e ideali. Per dire sì al miracolo che salva il mondo comune dalla sua distruzione e no alle nuove schiavitù. Una firma per “rifare” popolo e politica


“Guardiamo in faccia l’Europa 
e cambiamole i connotati”. 

Luigi Amicone - Pupi Avati - Giuliano Ferrara - Lodovico Festa - Giorgio Israel - Costanza Miriano

Un manifesto per tutti. Sottoscrivete


Cosa c’è di più istruttivo – brutale ma istruttivo –, per misurare l’ampiezza e la profondità della crisi europea, della demografia? Per una comunità umana che guardi e prepari il proprio futuro, i numeri della natalità sono decisivi. È con la carne e il sangue, non con le matrici finanziarie, che si produce, si consuma, si creano posti di lavoro, si pagano le pensioni. Ebbene, la prima brutta notizia è questa: nel nostro continente l’infanzia è diventata una quota marginale della popolazione.

La Germania, nazione con il reddito pro capite e familiare più alto d’Europa, i tassi di disoccupazione più bassi e le prospettive occupazionali migliori, i flussi migratori più consolidati e ancora oggi i più alti, ha il tasso di natalità più basso di tutto il continente e viaggia alla media di duecentomila morti che sopravanzano ogni anno le nascite. Significa qualcosa il fatto che il paese più ricco e più efficiente d’Europa è avaro di vita e di futuro? E l’Italia? Dice qualcosa un paese che sta messo come sta messo e anche in fatto di natalità è da record, ultimo in Europa, davanti solo alla Germania?

Una volta, la filosofa europea Hannah Arendt, ebrea tedesca rifugiata negli Stati Uniti, all’indomani della più orribile delle tragedie della storia, la Shoah, diede parola al miracolo che salva il mondo e, insieme, all’ideale bambino per cui il mondo significa ancora qualcosa:

«Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato per noi”».

E invece, significa qualcosa che oggi l’Europa non ha quasi altra fede e speranza se non nei cosiddetti “nuovi diritti”? Non c’è caso di relazioni con altri popoli – ad esempio con paesi dell’Est che chiedono di associarsi all’Unione Europea o paesi del terzo mondo che bussano all’Europa per gli aiuti umanitari – in cui diplomazie e Ong europee non si presentino al tavolo negoziale con la premessa che partnership e aiuti sono “condizionati” all’adozione, da parte degli interlocutori, di questa agenda di “nuovi diritti”. Quali? A quale “fede” e quale “speranza” alludono questi “diritti”?


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