viernes, 7 de febrero de 2014

EUGENIO CORTI - Una rilettura della storia del Novecento, per sorprenderne gli antecedenti culturali nella pretesa moderna di vivere «come se Dio non esistesse»


Besana, la morte di Eugenio Corti
Il ricordo dello scrittore brianzolo


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L'infido oggi

di Laura Cioni


Un'intervista allo scrittore scomparso il 4 febbraio, apparsa su "Tracce" nel maggio 1997. Una rilettura della storia del Novecento, per sorprenderne gli antecedenti culturali nella pretesa moderna di vivere «come se Dio non esistesse»

La vecchia casa attorniata da un ampio giardino in fiore, affacciata a tergo su una stretta via di un paese della Brianza, è la casa natale di Eugenio Corti. Lo scrittore mi accoglie con signorile cordialità. Non è la prima volta che ci incontriamo e già abbiamo avuto occasione di conversazioni interessanti, riguardanti il nostro secolo e i suoi tragici avvenimenti. La sua opera più nota, Il cavallo rosso, giunto alla decima edizione in Italia, mirabile affresco della storia d’Italia e d’Europa dal 1940 al 1974, è oggi tradotto in varie lingue. Corti mi mostra i primi volumi della traduzione francese, che gli sono appena giunti, e mi annuncia la prossima edizione negli Stati Uniti.

Che cosa ha caratterizzato in particolare la storia del Novecento?

La differenza maggiore tra il Novecento e i secoli che l’hanno preceduto è che in questo secolo le filosofie e le teorie, prima custodite nei libri e negli scaffali delle biblioteche, sono entrate nella vita quotidiana della gente. Le ideologie hanno fatto presa soprattutto in due nazioni per aspetti diversi all’avanguardia della modernità, la Germania e la Russia che, nel tentativo di farle prevalere, hanno trasformato in terreno di lotta il mondo intero. Questo fatto ha coinvolto tutti e ha profondamente segnato la vita di ogni abitante della terra.

Quali sono i fattori culturali e storici che hanno preceduto questa novità, da lei segnalata, del Novecento?

Secondo una suddivisione oggi purtroppo accettata in tutto l’Occidente, la storia degli ultimi millecinquecento anni viene distinta in due parti. La prima, dalla fine dell’Impero Romano al Rinascimento, corrisponde ad un unico periodo, chiamato Medioevo, nel quale vengono fatti coesistere i secoli oscuri della prevalenza barbarica e i successivi secoli della Res Publica Christiana e del Sacro Romano Impero, gli unici, questi, in cui il cristianesimo ha permeato in qualche modo la vita della società. Si tratterebbe in sostanza di un unico periodo regressivo per l’umanità. 

La seconda parte comincia proprio con il Rinascimento, che rappresenta l’inizio dell’età moderna, o del progresso. In realtà nel Rinascimento ha avuto luogo la rinascita del paganesimo, non più però nella sua versione antica, che dava anche spazio a Dio, o almeno agli dei, tanto che Cicerone poteva scrivere: «Apud nos omnia religione reguntur» (presso di noi tutto si regge sulla religione), e nel quale potevano comparire figure come Virgilio naturaliter christianus. Il nuovo paganesimo rinascimentale, invece, dopo aver conosciuto Cristo, lo respingeva: era dunque contro Cristo e contro Dio. Partendo appunto da lì si è arrivati nel nostro secolo alla proclamata «morte di Dio», che costituisce il nucleo caratterizzante la filosofia laicista contemporanea.

Quella esclusione di Dio dalla vita concreta della società ha prodotto fin da subito frutti amari: anzitutto, durante lo stesso Rinascimento, ha prodotto un primo piccolo Hitler o Stalin, con il Duca Valentino, che è stato assunto da Machiavelli come il modello della politica nuova e razionale, quella del fine che giustifica i mezzi. Non a caso ai nostri giorni Gramsci, fornendo il più moderno studio della politica preconizzata dal comunismo, ha dato al Partito il nome di «Nuovo Principe».

Più tardi, un secondo frutto tipico dell’esclusione di Dio dalla società degli uomini è stato, durante la Rivoluzione francese, il tremendo massacro vandeano, che ha presentato caratteristiche di genocidio e di menzogna molto simili a quelle comparse poi su scala molto maggiore nel nostro secolo.
Infine, il frutto maggiore, almeno fino ad oggi, è costituito appunto dalle stragi naziste e comuniste nel nostro secolo, che hanno comportato più milioni e milioni di morti. La «morte di Dio», infatti, comporta come stretta conseguenza la nullificazione dell’uomo. Di tutto questo la gente sa ben poco, perché il nostro è il tempo delle mezze verità, cioè in conclusione della menzogna.




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Andrea Guido SCIFFO

Eugenio Corti: 
la storia di un altro Novecento


Chi ascolta una conferenza di Corti rischia di essere invaso dalla gratitudine, verso la vita, verso Dio, verso i propri genitori o verso questo scrittore brianteo dall'aria coraggiosa e serena. Nel panorama delle lettere, un caso più unico che raro

Gli scrittori impegnati sono fuori moda: passati i postumi del '68, il tramonto dei Moravia, dei Vittorini e dei Calvino è inesorabile e la letteratura italiana va verso la dolorosa prova dell'analfabetismo di ritorno. Tuttavia, se i giovani di dopodomani leggeranno ancora, scopriranno i libri di Eugenio Corti: avranno cioè oltrepassato il deserto dei falsi maestri e la filosofia del "Dio, se c'è, non c'entra".

Le responsabilità del crollo culturale andrebbero suddivise tra numerosi complici: intellettuali, giornali, editori, artisti, docenti. Sarebbe un gioco al massacro, un passatempo per cattivi maestri, pronti a sfuggire al proprio compito di «ricostruire» il tessuto civile italiano ed europeo.

Il deserto verrà, è già venuto, nella prosa brutale della televisione, nella fatuità di tanto cinema, nel danno dei libri vuoti e presuntuosi. Ci sono anche autori che dedicano la vita all'arte, alla riconciliazione, all'edificazione dei lettori: agiscono nell'ombra, perché la "repubblica delle lettere" li giudica troppo luminosi. Tra costoro, nell'operosità della sua casa di Besana Brianza (dove è nato nel 1921) Eugenio Corti vive una stagione di creatività: lavora a un romanzo storico su Catone e riceve visite di lettori, soprattutto giovani. Ospite del Meeting di Rimini, dove nell'agosto del 1999 è avvenuta una parziale messinscena della sua tragedia "Processo e morte di Stalin", vanta migliaia di lettori che gli scrivono per confortarlo: è uno scrittore ispirato da intelletto d'amore. Finalmente anche in Italia si riconosce il suo valore: il 27 ottobre scorso, Corti ha ricevuto il "Premio Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica", assegnatogli dalla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, già tributato a studiosi del calibro di Del Noce, Ratzinger, Biffi, Messori, Giussani.

L'arte di narrare

All'uscita de "Il cavallo rosso", nell'83, i critici parlarono di "romanzo epico e corale": le edizioni Ares di Cesare Cavalieri avevano pubblicato il manoscritto (milleduecento pagine che i grandi editori avrebbero sfrondato) in tempo per consegnarlo a Giovanni Paolo II in visita in Brianza. Si parlò di un nuovo "Guerra e pace", de "Il mulino del Po" di Bacchelli o del film di Ermanno Olmi "L'albero degli zoccoli". Straordinaria l'accoglienza dei lettori di ogni estrazione: dieci anni dopo, un sondaggio di "Avvenire" rivela che è Corti lo scrittore cattolico più amato. "Il cavallo rosso", oggi alla tredicesima edizione, circola nel mondo tradotto in spagnolo, lituano, francese, rumeno e inglese: il suo autore condivide destino e magistero con il dissidente Aleksandr Solgenicyn e indica nell'arte del romanzo una delle vie d'uscita dalla condizione del post-coniunismo.

Già due generazioni di lettori si sono affezionate ai personaggi cortiani, nei ritratti che costituiscono dei veri capolavori: cento storie delle quali ognuno segue quella che più gli sta a cuore, sino alla fine. Ma per Corti la morte è morte cristiana cioè una porta aperta su altro. Ecco, è questo senso di una vita oltre la vita, questa percezione completa della promessa di Cristo nel cui regno "c'è tanto posto", a dare carne e sangue alla scrittura: le figure uscite dalla penna dell'autore restano impresse. Don Carlo Gnocchi, padre Gemelli, il comandante partigiano Marco (alias Alfredo di Dio), Mario Apollonio, John Burns, Nilde Jotti, Palmiro Togliatti, sino agli sconosciuti Pierello, Igino, Giulia e Gerardo (patriarca della famiglia Riva, autodidatta, rileggeva sempre il medesimo romanzo, "I promessi sposi"), alle dolci Colomba e Alma, all'indimenticabile Manno Riva: è la storia di una famiglia, e va dritta all'anima.

Processo e morte del comunismo

L'elite europea contemporanea, però, ha il cuore inaridito. Solgenicyn disse, in occasione del Premio Templeton, che "il mondo è giunto oggi a un estremo: se lo si fosse rappresentato alle generazioni dei secoli precedenti, avrebbero sospirato unanimi ‘l'Apocalisse!'. Ma noi ci siamo abituati". Aggiunse poi il punto finale della profezia: all'impatto dell'ideologia comunista è impossibile resistere con le semplici armi del liberalismo, cioè privi della dimensione morale e spirituale.

Corti vide il socialismo reale con i suoi occhi, da soldato, durante la campagna dell'inverno '42-'43 con l'Armir; poi, reduce, lo studiò al punto da divenirne conoscitore-avversario: la vocazione di scrittore gli impose di combattere con l'arma dell'arte e della vita. Ne "Il cavallo rosso" le vicende di Michele Tintori (personaggio-controfigura dell'autore) dal gulag di Crinovàia alle elezioni del 18 aprile 1948 rappresentano la scelta di una politica cristiana contro la minaccia di "rivoluzione" preparata dal Fronte Popolare. Eppure, nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, un anticomunismo filosoficamente fondato non fu possibile. L'impostazione dell'antifascismo impedì un serio confronto concettuale e mutilò il naturale sviluppo del Paese sulla base della risoluzione degli errori del passato. Le limitazioni imposte agli autori "non organici", cioè in lotta contro l'egemonia "gramsciana" furono drastiche: si veda il caso del filosofo Augusto Del Noce e del teologo Cornelio Fabro.

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