sábado, 30 de abril de 2016

E’ morto Harry Wu, il Solzhenitsin cinese,


Harry Wu, controrivoluzionario Svelò l'orrore dei Laogai


di Stefano Magni

E’ morto ieri Harry Wu, il Solzhenitsin cinese, l’uomo che riuscì a sopravvivere a 19 anni di lavori forzati e “rieducazione” nei Laogai (i campi di concentramento cinesi) e a farne conoscere l’orrore a un Occidente distratto.

Nato nel 1937, studiò all'Istituto di Geologia di Pechino all’alba del regime comunista, instaurato da Mao Zedong nel 1949. La sua era una famiglia benestante, cattolica, di Shanghai. Aveva già perso tutte le sue proprietà. All’università venne individuato e arrestato una prima volta nel 1956 per aver criticato il Partito Comunista Cinese durante la Campagna dei Cento Fiori. Questa campagna fu uno dei più subdoli tranelli tesi da Mao ai danni dei dissidenti interni. Dopo il primo periodo, durissimo, fatto di purghe ed eliminazione fisica dei “nemici di classe”, collettivizzazione forzata delle campagne e industrializzazione forzata (il cosiddetto “Grande Balzo Avanti” che provocò una carestia con almeno 30 milioni di morti in tutta la Cina), Mao finse di lasciare maggior libertà di espressione. Permise la libera critica al Partito e ai suoi dirigenti, ma solo per individuare i nemici. Uno di questi era proprio Harry Wu, cattolico praticante, mai arresosi all’ideologia marxista imperante. Dopo la Campagna dei Cento Fiori, Harry Wu visse “attenzionato” (come si direbbe oggi) dalla polizia politica, fino al suo arresto. Non venne mai formalmente incriminato né venne sottoposto a regolare processo, ma nel 1960, dopo un periodo di detenzione, venne inviato nei Laogai (“riforma attraverso il lavoro”) con l’accusa di essere un “controrivoluzionario”.

“Il primo giorno in cui arrivi in un Laogai” – spiegava Harry Wu – “devi ammettere pubblicamente la tua colpa e non ti puoi dichiarare innocente. Devi fare una confessione di fronte agli altri prigionieri, promettendo che rinuncerai al tuo punto di vista critico e alla tua religione. Le autorità del campo ti chiedono ‘Perché sei diventato un cattivo elemento? Il governo cinese ti aiuterà a riformarti’. Non puoi che essere impazzito se vivi male nel paradiso socialista cinese. Sei costretto a confessare che anche la tua religione è una stortura mentale, perché Dio non esiste. Devi condannare anche le tue convinzioni più profonde”. L’inferno del Laogai durò 19 anni. Harry Wu fu rilasciato solo nel 1979, quattro anni dopo la morte di Mao, all’alba delle riforme di Deng. Wu riuscì a fuggire negli Stati Uniti nel 1985, dove divenne professore di Geologia all'Università della California, Berkeley. Nel 1992 creò la Laogai Research Foundation, organizzazione di ricerca e pubblica educazione non-profit sui campi di lavoro cinesi. Nel 1994, sull’esperienza del Laogai scrisse Bitter Winds, pubblicato in italiano nel 2008 dalle Edizioni San Paolo con il titolo di Controrivoluzionario, i miei anni nei gulag cinesi.

La Laogai Research Foundation calcola che il numero complessivo dei prigionieri dei Laogai, dal 1949 ad oggi, va dai 40 ai 50 milioni di individui. Al 2013, la stessa fondazione stimava che ne fossero attivi 1045 in tutto il Paese con una popolazione di internati di 4 milioni di individui. Ma, come ammetteva la stessa fondazione, avrebbero potuto essere molti di più. Infatti, la maggior parte di essi è sempre stata mimetizzata. Potevano essere scambiati per industrie. E in molti casi lo erano: campi di lavoro collegati a industrie pubbliche o private. I prigionieri erano impiegati anche per la produzione di beni di consumo, molti dei quali adatti all’esportazione. Nel Laogai i prigionieri erano sottoposti a orari insopportabili di lavoro forzato (fino a 16 ore al giorno) accompagnati da sedute di critica e autocritica per la “riforma del pensiero”. Indeboliti dal superlavoro e dalla fame, oltre che da numerosi maltrattamenti fisici, i prigionieri potevano più facilmente subire il lavaggio del cervello e diventare cittadini “docili” se riuscivano a sopravvivere all’esperienza. Nel 2013, anche grazie all’impegno della Laogai Research Foundation, il regime di Pechino ha decretato la chiusura dei Laogai. Nel giro di due anni i campi sono stati ufficialmente dismessi. Tuttora non è chiaro, però, se alle parole siano seguiti anche fatti concreti.

Harry Wu, nei lunghi anni di campagne di sensibilizzazione dell’Occidente alla tragedia totalitaria cinese, cercò di aprirci gli occhi sulla natura nascosta del regime, quella che tendiamo a (o non vogliamo) vedere. A chi parla di “nuova Cina autoritaria, ma liberista”, il dissidente ricordava che “La Cina è sì autoritaria, ma non è un sistema di libero mercato. Benché la gente abbia oggi molta più libertà economica rispetto al passato, ci sono ancora infiniti ostacoli alla libera iniziativa. Una persona non può comprarsi il suo pezzo di terra che ancora proprietà esclusiva dello Stato. Può essere data in affitto, ma anche revocata e affidata ad altri senza preavviso. Il commercio, sia interno che internazionale, deve operare entro i limiti di regolamentazioni governative molto oppressive. Ricordiamo tutti che Google ha dovuto lasciare la Cina quando ha rifiutato di censurare i contenuti, alterando i suoi metodi di business. Molte delle più proficue attività economiche in Cina sono statali e godono di finanziamenti pubblici illimitati. Non è certo un tratto tipico del libero mercato: queste grandi aziende, semplicemente, non possono mai fallire. Inoltre, il governo gestisce i Laogai, campi di concentramento in cui masse di prigionieri producono merci a costo zero, con il loro lavoro forzato, eliminando la competizione in questo presunto ‘libero mercato’, danneggiando la concorrenza sia in Cina che all’estero”.

A chi pensa che la Cina sia almeno un sistema stabile, Harry Wu, dati alla mano rispondeva che: “In Cina scoppiano circa 80mila rivolte popolari ogni anno contro la corruzione, le espropriazioni forzate, la politica del figlio unico, ma il governo e il suo apparato di sicurezza sono molto forti. La polizia incarcera la gente anche sulla base di semplici sospetti”. E soprattutto, manca del tutto una libertà di religione: “Essere cattolici e riconoscere l’autorità del Papa è ancora illegale in Cina. Allo stesso modo, tutte le altre religioni sono strettamente sorvegliate e represse nella Repubblica Popolare. Solo le ‘chiese patriottiche’, controllate dal governo, possono esistere con i loro preti, funzionari e monaci: tutti nominati dal Partito”.

Harry Wu documentò ampiamente anche la politica del figlio unico e tutti i suoi orrori, solo parzialmente abbandonata dal Partito in tempi recentissimi (e neppure in modo sincero). Di questa tragedia scriveva: “Il popolo cinese non ha scelta. Deve accettare le politiche di controllo demografico. Se violano quelle leggi, subiscono infinite forme di persecuzione e maltrattamenti, compresi: aborto forzato, sterilizzazione forzata, multe da salasso, distruzione e confisca di proprietà, perdita del posto di lavoro, rappresaglie sui parenti. E così molti cinesi cercano di obbedire a questa politica, anche se dovesse essere moralmente molto difficile per loro. Fratelli e sorelle, zie e zii, stanno diventando cose del passato”. E sarà proprio questo il tallone d’Achille di un regime solo apparentemente granitico, perché: “Il problema demografico cinese è molto più ampio di quanto non si possa vedere. La Cina ha una popolazione che sta invecchiando e ora, grazie alla ‘politica del figlio unico’, i genitori e due coppie di nonni devono poter contare su un unico giovane per il sostegno nella terza età. Ciò implica una riduzione della forza lavoro, il principale fattore di crescita della Cina”.

“Dal mio punto di vista, il regime comunista cinese non può sopravvivere a lungo. Cadrà, nonostante il sostegno economico occidentale e i suoi metodi repressivi brutali”, confidava Harry Wu in tempi recenti. La sua morte, all’età di 79 anni, gli ha impedito di vedere il giorno della caduta del “muro di Berlino” cinese. Ma giungerà mai questo momento? Il controrivoluzionario cattolico, mai piegatosi alla rieducazione, ne era convinto.

Leggi tutto: www.lanuovabq.it

For generations, Muslim students have been indoctrinated to see Christians as a non-organic remnant of Western colonialism.


How Islam Erases Christianity from History


by Raymond Ibrahim


An ISIS video released last month shows members of its religious police in Mosul, Iraq, burning hundreds of Christian books it deems blasphemous.

While Christianity continues to be physically erased from the Middle East, lesser known is that its historical role and presence is also being expunged from memory.

Last month a video emerged showing Islamic State members tossing hundreds of Christian textbooks, many of them emblazoned with crosses, into a large bonfire. As one report put it, ISIS was "burning Christian textbooks in an attempt to erase all traces of" Christianity from the ancient region of Mosul, where Christianity once thrived for centuries before the rise of Islam.

As usual, ISIS is ultimately an extreme example of Islam's normative approach. This was confirmed during a recent conference in Amman, Jordan, hosted by the Jerusalem Center for Political Studies. While presenting, Dr. Hanna Kildani, a Christian, said that "there is a complete cancelation of Arab Christian history in the pre-Islamic era," "many historical mistakes," and "unjustifiable historic leaps in our Jordanian curriculum." "Tenth grade textbooks omit any mention of any Christian or church history in the region." Wherever Christianity is mentioned, omissions and mischaracterizations proliferate, including the portrayal of Christianity as a Western (that is, "foreign") source of colonization, said Kildani.

Of course, Christian minorities throughout the Middle East—not just in Jordan—have long maintained that the history taught in public classrooms habitually suppresses the region's Christian heritage while magnifying (including by lying about) Islam.

"It sounds absurd, but Muslims more or less know nothing about Christians, even though they make up a large part of the population and are in fact the original Egyptians," said Kamal Mougheeth, a retired teacher in Egypt. "Egypt was Christian for six or seven centuries [before the Muslim invasion around 640]. The sad thing is that for many years the history books skipped from Cleopatra to the Muslim conquest of Egypt. The Christian era was gone. Disappeared. An enormous black whole."[i]

This agrees perfectly with what I recall my parents, Christians from Egypt, telling me of their classroom experiences from more than half a century ago: there was virtually no mention of Hellenism, Christianity, or the Coptic Church—one thousand years of Egypt's pre-Islamic history. History began with the pharaohs before jumping to the seventh century when Arabian Muslims "opened" Egypt to Islam. (Wherever Muslims conquer non-Muslim territories, Islamic hagiography euphemistically refers to it as an "opening," fath, never a "conquest.")

Sharara Yousif Zara, an influential politician involved in the Iraqi Ministry of Education agrees: "It's the same situation in Iraq. There's almost nothing about us [Christians] in our history books, and what there is, is totally wrong. There's nothing about us being here before Islam. The only Christians mentioned are from the West. Many Iraqis believe we moved here. From the West. That we are guests in this country."[ii]

Zara might be surprised to learn that similar ignorance and historical revisionism predominates in the West. Although Christians are in fact the most indigenous inhabitants of most of the Arab world, I am often asked, by educated people, why Christians "choose" to go and live in the Middle East among Muslims, if the latter treat them badly.

At any rate, the Mideast's pseudo historical approach to Christianity has for generations successfully indoctrinated Muslim students to suspect and hate Christianity, which is regularly seen as a non-organic parasitic remnant left by Western colonialists (though as mentioned, Christianity precedes Islam in the region by some six centuries).

This also explains one of Islam's bitterest ironies: a great many of today's Middle East Christians are being persecuted by Muslims — including of the ISIS variety — whose own ancestors were persecuted Christians who converted to Islam to end their suffering. In other words, Muslim descendants of persecuted Christians are today slaughtering their Christian cousins. Christians are seen as "foreign traitors" in part because many Muslims do not know of their own Christian ancestry.

Due to such entrenched revisionism, Muslim "scholars" are able to disseminate highly dubious and ahistorical theses, as seen in Dr. Fadel Soliman's 2011 book, Copts: Muslims Before Muhammad. It claims that, at the time of the Muslim conquest of Egypt, the vast majority of Egyptians were not, as Muslim and Western history has long taught, Christians, but rather prototypical Muslims, or muwahidin, who were being oppressed by European Christians: hence, the Islamic invasion of Egypt was really about "liberating" fellow Muslims.

Needless to say, no real historian has ever suggested that Muslims invaded Egypt to liberate "proto-Muslims." Rather, the Muslim chroniclers who wrote our primary sources on Islam, candidly and refreshingly present the "openings" as they were—conquests, replete with massacres, enslavement, and displacement of Christians and the destruction of thousands of churches.

In short, Islam's attacks on Christianity are not, as some in the West know, limited to the physical, but for long have involved intellectual attacks dedicated to undermining its heritage -- dedicated to erasing Christianity's history in the very region of its birth.

Raymond Ibrahim is a Judith Friedman Rosen fellow at the Middle East Forum and a Shillman fellow at the David Horowitz Freedom Center.

[i] Quote from The Last Supper: The Plight of Christians in Arab Lands by Klaus Wivel.
[ii] Ibid.


Read more: www.meforum.org



Tocqueville foresaw how it would come. ... "By 1789, France was a “servile state” that had lost its understanding of liberty"


The End of Democracy in America



by Myron Magnet

"So while democracy often gives rise to “a manly and legitimate passion for equality that spurs all men to wish to be strong and esteemed,” it can also lead weak men “to want to bring the strong down to their level”—with such base fervor as ultimately to defeat democracy’s purpose by “preferring equality in servitude to inequality in freedom.”"

Alexis de Tocqueville was a more prophetic observer of American democracy than even his most ardent admirers appreciate. True, readers have seen clearly what makes his account of American exceptionalism so luminously accurate, and they have grasped the profundity of his critique of American democracy’s shortcomings. What they have missed is his startling clairvoyance about how democracy in America could evolve into what he called “democratic despotism.” That transformation has been in process for decades now, and reversing it is the principal political challenge of our own moment in history. It is implicitly, and should be explicitly, at the center of our upcoming presidential election.

Readers don’t fully credit Tocqueville with being the seer he was for the same reason that, though volume 1 of Democracy in America set cash registers jingling as merrily as Santa’s sleigh bells at its 1835 publication, volume 2, five years later, met a much cooler reception. The falloff, I think, stems from the author’s failure to make plain a key step in his argument between the two tomes—an omission he righted two decades later with the publication of The Old Regime and the French Revolution in 1856. Reading the two books together makes Tocqueville’s argument—and its urgent timeliness—snap into focus with the clarity of revelation.

Osservatorio Gender di "Famiglia Domani" - Bollettino n. 19 del 30 aprile 2016


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