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sábado, 19 de julio de 2014

Leggi che aumentano l´odio «sono strumenti del totalitarismo e non della democrazia»


«Le leggi contro l’omofobia creano un nuovo reato di opinione e minano la democrazia» 


da Benedetta Frigerio

Paul Coleman, portavoce di Alliance Defending Freedom, spiega all’Osce che «queste norme sono facilmente manipolabili e limitano l’essenziale scambio di opinioni»

Le leggi contro l’omofobia simili all’italiano ddl Scalfarotto e già introdotte in paesi come Francia e Gran Bretagna «sono strumenti del totalitarismo e non della democrazia». La tesi di Paul Coleman, portavoce dell’Alliance Defending Freedom, è stata discussa in un incontro con l’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa, durante il meeting dell’Osce del 3 e 4 luglio scorsi a Vienna. Secondo Coleman, come riporta Catholic News Agency, le leggi che introducono reati di opinione si contrappongono ai diritti umani, nati «per limitare il potere dello Stato e aumentare la libertà dei cittadini».

CONCETTI VAGHI. Il primo rischio è rappresentato da un’interpretazione arbitraria delle norme da parte della magistratura, dal momento che «il discorso d’odio non è un concetto universalmente riconosciuto, come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo». Non a caso le leggi in questione «utilizzano parole generiche, concetti manipolabili come “insulto” o “disprezzo”», che permettono «un’applicazione arbitraria».
Questa vaghezza induce «i giudici in tentazione», spingendoli a «comportarsi in modo antidemocratico e a inserire i propri giudizi personali e di valore nell’interpretazione della legge». Un altro rischio è rappresentato dal vantaggio di cui gode l’accusa quando si prendono in esame i reati di opinione: «Queste norme spesso non hanno un parametro obiettivo in grado di stabilire cosa s’intenda per “insulto” o “disprezzo”», perciò «i giudici si concentrano di più sui sentimenti soggettivi di chi è stato insultato, senza prendere in considerazione la verità oggettiva dell’affermazione».

ORIGINE DEI REATI D’OPINIONE. Il fatto poi, continua Coleman, che l’origine storica dei primi reati di opinione risalga «ai paesi comunisti, all’Unione Sovietica e ai suoi alleati, alla pressione politica dei regimi totalitari», anche se «questo non basterebbe di per sé a dire che essi vanno rigettati», «dovrebbe almeno far sorgere qualche sospetto sull’obiettivo di coloro che oggi li sostengono». Istituire un reato di opinione, come nel caso delle leggi sull’omofobia, laddove vietano di esprimere opinioni negative sull’omosessualità o il matrimonio gay, limita «la realizzazione propria dell’individuo», essendo «il libero scambio di opinioni diverse essenziale». Di fatto il «reato d’opinione» restringe «le possibilità di arrivare alla verità (…). Se queste leggi sopprimono la possibilità di un libero scambio d’idee, sopprimono anche la possibilità di scoprire che magari le nostre idee erano sbagliate, di correggerci e migliorarci». A repentaglio ci sarebbe anche il meccanismo alla base della democrazia, che si fonda sulla «libera discussione» e che non può valere «solo per le idee che sono popolari o inoffensive», ma «anche per le parole che possono offendere, scioccare o disturbare».

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